Dalla Redazione Fintech

FinTech, viaggio nel mondo del social lending italiano. Intervista a Decio Morgese, Partner di LMRC Studio Legale Associato

A che punto è il fenomeno del Fintech e del Digital Finance nel nostro Paese?

D.M. Ad uno stadio decisamente embrionale. È un futuro ricco di promesse, ma ad oggi non sembra vi siano ancora le condizioni di sistema per garantire una roadmap chiara per chi intende fare investimenti su scala industriale in questo settore. Il panorama del Fintech è dominato – non a caso – da startup guidate da imprenditori coraggiosi che, attraverso il sostegno di investitori normalmente non istituzionali e altrettanto coraggiosi, cercano di colonizzare questo settore, inventando di fatto nuovi business model basati sulle nuove tecnologie e cercando al contempo di far crescere le loro imprese, partendo nei fatti da zero.

 

Quali sono le principali tendenze emerse in quest’ultimo anno e come sono state accolte dagli utenti? Esiste un fattore culturale? Normativo? Quali sono gli utenti tipo e quali sono i paesi più avanzati?

D.M. In termini di tendenze mainstream mi pare che questo sia stato l’anno della “scoperta” da parte del grande pubblico del Bitcoin e delle criptovalute in generale e, ancor di più, della blockchain. Parlo di “scoperta” in termini, ovviamente, non letterali, visto che bitcoin e blockchain esistono e sono noti da tempo. Quello che è successo quest’anno è che molti non addetti al settore hanno preso coscienza del fenomeno criptovalute e delle sue potenzialità e creato un hype che ha attirato l’attenzione della stampa, delle autorità di vigilanza e degli operatori istituzionali. Attraverso le criptovalute, hanno anche scoperto che il fintech non è solo bitcoin e che le possibili innovazioni in questo campo sono innumerevoli ed in grado di indurre cambiamenti profondi nel modo in cui si fa impresa in questo settore.

Allo stesso modo, le persone iniziano a farsi una idea su cosa siano i bitcoin e quali impatti possano avere nella vita quotidiana in termini di investimento, in termini di riserva di valore e in termini di strumento di pagamento. Questo ha dato nuova linfa al fintech e creato nuove aree di interesse e nuove opportunità.

Detto questo, fuori dall’interesse di carattere culturale i campi di applicazione per i clienti retail sono ancora ridotti e le diffidenze rispetto all’introduzione di nuove tecnologie che promettono di innovare profondamente il mondo della finanza, sconvolgendo interessi e paradigmi consolidati, hanno costituito un ostacolo importante alla diffusione di questi nuovi modelli di business.

Certamente, il dato normativo costituisce un elemento importante in termini di accettabilità di nuove modalità di gestire la finanza. La copertura offerta dalla vigilanza regolamentare è un fattore chiave per lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi. La sua assenza comporta certamente un rischio di impresa più elevato per chi decide di investire ed anche un deterrente per i potenziali utenti che non sono in condizioni di valutare adeguatamente i rischi cui si espongono passando da un istituto di credito tradizionale ad una startup che – in assenza di un quadro regolamentare definito – si propone come possibile alternativa per pagamenti o per l’erogazione di credito.

Nella mia esperienza, i paesi che guardano a queste tecnologie con più “libertà di azione” e raggiungono livelli di sofisticazione più alti sono quelli che sono più indietro dal punto di vista sociale ed economico. Molto spesso l’assenza di un framework regolamentare standard ed un’economia caratterizzata da forte sperequazione favoriscono gli investimenti finalizzati allo sviluppo di tecnologie rilevanti. In molti paesi dell’est europeo – ad esempio – le startup godono di una libertà di azione che semplifica il lancio di nuovi servizi. Tutto ciò, evidentemente, ha un costo in termini di stabilità e di rischi per il sistema. Ecco perché, interventi normativi rapidi e consapevoli sono necessari per evitare fenomeni di goldplating e colli di bottiglia.

Il nostro Paese sta mostrando ancora un ritardo rispetto ai trend tecnologici più significativi?

D.M. L’Italia è storicamente il paese degli interessi consolidati e delle rendite di posizione. È il paese in cui tutto deve cambiare perché tutto resti come prima. In questo quadro, a fronte di un panorama eccezionalmente vivace nell’ambito delle startup, i grandi colossi finanziari italiani incontrano grandi difficoltà a tradurre il pensiero in azione e a lasciare che l’innovazione tecnologica consenta di ammodernare processi industriali ormai obsoleti. A volte si ha la sensazione che gli investimenti nelle startup da parte dei grandi gruppi bancari e assicurativi siano più mirati a controllare l’innovazione – anche riducendone le ricadute pratiche, evitando così scossoni al core business – che a trarne un reale vantaggio per gli stakeholder e le strutture aziendali stesse.

L’assenza, quindi, di una reale volontà di competere con altre culture attraverso l’innovazione e la difficoltà a costruire un quadro normativo favorevole ha certamente prodotto un ritardo di carattere infrastrutturale. A fronte di questo, sottolineo ancora che la vivacità delle startup italiane e dell’indotto culturale che questa vivacità crea, in parte compensa quel ritardo spingendoci nel gruppo dei paesi che guida i fenomeni fintech.

Stringendo il campo al peer-to-peer lending, qual è attualmente il quadro del fenomeno in Italia? Si registra una crescita di operatori e di giro d’affari?

D.M. Non mi pare. Il peer-to-peer lending è un fenomeno estremamente interessante dal punto di vista giuridico, sociale ed economico. Nei fatti è uno spacchettamento delle componenti essenziali dell’attività bancaria, vale a dire raccolta del risparmio, erogazione del credito e costruzione dell’infrastruttura aziendale che consente l’attività e la loro ricomposizione in un paradigma diverso e totalmente originale in cui l’intermediario offre solo una infrastruttura, lasciando ai propri clienti la parte di attività legata al rischio di credito e la relativa remunerazione.

Ad oggi la mia sensazione è che questo fenomeno, pur estremamente interessante per il potenziale che racchiude, non sia ancora stato percepito come un modo conveniente per farsi finanziare ed un modo remunerativo per investire il proprio denaro. Mi pare che sia la dimostrazione di quello che sostenevo prima: la diffidenza indotta dall’assenza di un quadro regolamentare definito e l’inerzia della comunità finanziaria italiana rendono la strada per il successo di questo tipo di iniziative particolarmente impervia. Arriverà ragionevolmente il giorno in cui un’azienda di social lending potrà essere considerata un competitor a tutti gli effetti di una banca o di una finanziaria 106, ma oggi non è facile dire quando ciò accadrà. Al contempo, vi sarà, anche la necessità di affermare il principio che chi decide di investire il proprio denaro in simili iniziative deve poter contare sullo stesso livello di protezione di cui gode chi – per esempio – investe il proprio denaro sui mercati dei capitali.

Qual è l’atteggiamento del sistema bancario/finanziario? Vorranno entrare nel business? Ne ostacoleranno lo sviluppo? Cosa è successo negli altri paesi?

D.M. Ho parzialmente risposto a questa domanda. Gli istituti di credito – grandi e piccoli – perseguono tipicamente logiche di breve periodo e oggi tendono a vedere nel fintech una minaccia più che un’opportunità. Il sistema bancario è coinvolto nel dibattito, è presente con investimenti, ma ad oggi sembra più interessato a controllare il fenomeno del fintech in modo da non essere sorpreso in caso di accelerazioni non previste. La priorità per banche ed assicurazioni italiane è quella di difendere il proprio core business  ed i propri processi industriali più che di provare a scoprire dove il fintech può portare.

Detto questo, non credo che controllare e frenare possa essere una strategia di medio e lungo periodo sostenibile. Può andar bene per qualche mese, fino al momento in cui diventano chiare le metriche delle innovazioni che possono essere introdotte, ma questo atteggiamento deve rapidamente cambiare. Trovo sia assolutamente necessario iniziare a porsi il problema di cosa saranno i servizi bancari, finanziari e di investimento fra dieci anni in Italia, in Europa e nel mondo ed iniziare a prepararsi per competere con chi sta prendendo questa sfida più seriamente di noi.

Qual è, invece, il punto di vista degli utenti, hanno dimestichezza con l’utilizzo di queste piattaforme o sono ancora impacciati?

 D.M. Ovviamente, c’è un tema generazionale. In Italia abbiamo intere fasce di clienti che non sono in grado di fruire di servizi come l’home banking o che si rifiutano di utilizzare le carte di credito. A questo si aggiunge un ritardo nell’alfabetizzazione informatica che evidentemente costituisce un ostacolo. Tuttavia, l’interazione con le piattaforme fintech attraverso smartphone, tablet e relative app sembra avere semplificato enormemente l’accesso da parte degli utenti, consentendo in larga parte di superare i fenomeni di analfabetismo informatico.

Detto ciò, c’è, ovviamente, un tema ancor più rilevante relativo alla comprensione profonda dei meccanismi economici e delle modalità di erogazione di questi servizi. Il peer-to-peer lending è per sua natura un servizio che richiede una interazione più sofisticata con gli intermediari rispetto a quella imposta dai suoi omologhi tradizionali. Per fruire di questi prodotti è necessario da un lato imporre un flusso informativo adeguato nei confronti degli utenti per consentire decisioni consapevoli e, dall’altro presentare queste informazioni in modo che il cliente possa utilizzarle correttamente. Proprio in questa prospettiva è necessaria quella riforma della regolamentazione bancaria e finanziaria di cui parlavo prima. È fondamentale un rinnovamento del quadro regolamentare che consenta di far rientrare questi nuovi modi di fare business nell’ambito di ciò che è socialmente e professionalmente accettabile, stabilendo standard di condotta che da un lato rassicurino i clienti e dall’altro impongano forme di educazione finanziaria per un approccio più consapevole a nuovi e più efficienti strumenti.

Secondo Lei queste piattaforme possono funzionare davvero o presentano dei limiti, ad esempio nel controllo della solvibilità degli utenti, nella raccolta dei dati sensibili e nella gestione del credito in caso di criticità?

            Dal mio punto di vista non c’è un ostacolo insormontabile. Il controllo del merito di credito, così come la data protection e la gestione dei crediti deteriorati sono aree in cui ci sono stati progressi rilevanti negli ultimi anni; anche per merito della tecnologia. Il tema non è tanto quello che si può o non si può fare. Il tema è: quali sono le condizioni per consentire agli operatori del settore di offrire questi servizi, senza che le disparità informative, la scarsa trasparenza e la difficoltà di decodificazione dei dati messi a disposizione si traduca in un rischio non comprensibile per gli utenti e, quindi, in forme di approfittamento. Non mi pare che questo problema sia concettualmente diverso da quello affrontato nel debt capital market ai tempi dei bond Cirio, degli Argentina bond e dei reverse convertible per chi li ricorda. I mercati hanno trovato forme di tutela ed i mercati dei capitali hanno continuato ad evolversi.

Infine, qual è il ruolo dei Big Data nel panorama finanziario? Quali sono le aree e i processi su cui possono impattare e quali i costi e i benefici?

D.M. Questo è un tema estremamente delicato. Per rispondere a questa domanda è necessario prima chiedersi quanto sia legittima la “spigolatura” dei dati sensibili e non e la relativa vendita da parte di chi ne viene in possesso non attraverso una cessione volontaria, ma per mezzo di consensi più o meno estorti in circostanze non perfettamente chiare agli utenti. C’è dietro un tema generale di correttezza, trasparenza e buona fede da parte di chi raccoglie i dati. Il rischio è evidentemente quello di innescare fenomeni sociali pericolosi che possono avere come estrema conseguenza quella dell’emarginazione di fasce economiche più deboli formate da soggetti “non bancabili” o “non assicurabili” sulla base di informazioni raccolte in modo non chiaro. In questo contesto, il tema relativo alla ricerca di un punto di equilibrio tra efficienza del processo industriale assicurativo, bancario o finanziario e tutela della posizione contrattuale dei contraenti più deboli è uno degli argomenti che più necessitano di un dibattito aperto e franco che poi sfoci in provvedimenti di legge adeguati.