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L’investment bank non è tramontata

La progressiva normalizzazione del mercato bancario e finanziario dopo la grande crisi degli anni 2007-2009 ha fatto quasi dimenticare la sorte delle grandi banche di investimento, cui molti imputano larga parte delle responsabilità della crisi suddetta. Di esse si è detto tutto il male possibile e poi si è preso atto che si stavano riprendendo, ma il punto sulla loro evoluzione e sulle loro prospettive non è ancora stato fatto. Eppure si tratta del fenomeno bancario più interessante, dinamico e profittevole degli anni che precedettero la crisi.

La sua potenza finanziaria e anche politica dominò la scena di allora, facendo passare in secondo piano il resto del mondo della finanza, comprese le banche commerciali al dettaglio, che sono invece state oggetto di grandi attenzioni da parte dell’opinione pubblica negli ultimi tempi. Le determinanti del rilevante sviluppo delle banche d’investimento prima del 2007 sono tante, e fra esse spiccano una normativa particolarmente vantaggiosa rispetto a quella delle banche commerciali, un management estremamente determinato e remunerato molto lautamente, con bonus strettamente collegati ai risultati aziendali di breve periodo, una connessa forte propensione al rischio delle attività svolte, la capacità di captare segmenti di mercato particolarmente redditizi e di crearne altri ex novo, in cui hanno potuto godere a lungo di una situazione di quasi monopolio, e una fiducia illimitata sui mercati, che in esse vedevano la punta di diamante del sistema finanziario mondiale.

Le grandi banche di investimento hanno anche usato molto accortamente la comunicazione e le relazioni pubbliche, cosa che ha consentito loro di occultare i frequenti gravissimi conflitti di interesse esistenti fra le attività delle loro diverse divisioni, l’intenso utilizzo della leva che le ha portate a livelli insostenibili, il contrasto spesso esistente fra i rischi reali di determinate attività e quelli percepiti dal pubblico, e la fragilità della loro struttura in presenza di condizioni economiche generali perturbate. In effetti, non appena l’economia e il sistema finanziaria hanno manifestato evidenti segni di crisi, le banche di cui sto parlando sono drammaticamente crollate. In verità alcune (tra cui Crédit Suisse, JP MorganBarclays e Nomura) hanno tenuto grazie a una gestione più prudente e più tradizionale delle altre. Altre invece (come Ubs, Deutsche Bank e Citigroup) hanno avuto forti difficoltà e alcune di esse hanno fatto ricorso ai capitali statali per poter continuare a operare. Altre, infine, sono di fatto scomparse dal mercato o perché fallite in senso proprio, come Lehman Brothers le cui più importanti attività sono state acquisite da Barclays e Nomura, o salvate dall’intervento di banche più grandi e più solide nei cui gruppi sono confluite. È quest’ultimo il caso, per esempio, di Merrill Lynch finita fra le braccia di Bank of America, e di Bear Stearns, acquisita da JP Morgan.

Molti ritengono che la crisi di un certo numero di banche di investimento sia stata causata soprattutto dall’aver cercato di copiare il modello di Goldman Sachs, che era stato vincitore assoluto nel periodo precedente la crisi, ma di non essere riuscite nell’intento, dove invece Goldman aveva continuato più o meno brillantemente a navigare anche durante la crisi, seppure a velocità ridotta. Tale modello si basava in buona parte su finanziamenti volti a sostenere i leveraged buy-outs, su investimenti nel private equity e negli hedge fund, sulla vendita di titoli assistiti da garanzie ipotecarie, sull’esplosione dei derivati di varia natura, sul trading per conto della clientela, ma soprattutto per conto proprio. Dopo ciò che è accaduto nel triennio della crisi, tale modello non è più replicabile e la stessa Goldman Sachssta ridimensionando e semplificando la propria struttura e i propri obiettivi. Per le altre banche d’investimento la scelta è più complessa e le ristrutturazioni sono state più pesanti. Molte di esse hanno effettuato massicci licenziamenti di personale, anche se dopo la fase acuta della crisi hanno dovuto riprendere le assunzioni per affrontare la nuova fase di sviluppo e rafforzare le unità di business su cui puntare per metterla in pratica. Anche quelle che hanno ricevuto aiuti statali, hanno già in buona parte provveduto a rimborsarli.

In alcuni casi, come per Ubs e Citigroup, i rispettivi Stati hanno addirittura realizzato plusvalenze sulle vendite delle azioni che avevano controvoglia acquisito qualche tempo prima. È tuttavia opinione generale che il cambiamento dell’attività delle investment bank, più che da una scelta autonoma delle singole istituzioni coinvolte, sarà imposto dalle modifiche ai regolamenti e alle procedure di vigilanza. Questo in realtà è già avvenuto per alcune di esse, che sono passate sotto il controllo delle autorità bancarie classiche o che hanno dovuto fare i conti con le limitazioni di fatto o di diritto imposte, per esempio, sul trading per conto proprio o sui derivati. Novità peraltro sono attese nell’ambito dell’attuazione della nuova legge bancaria americana e nella predisposizione delle nuove corrispondenti norme inglesi, che sembrano intenzionate a dividere le attività bancarie commerciali da quelle di investimento. Fare previsioni specifiche in materia è difficile, ma è probabile che sia per scelta autonoma sia per ciò che sarà imposto dalla nuova regolamentazione (fra cui non bisogna dimenticare Basilea 3, e neppure tutto ciò che sta sconvolgendo l’aspetto della remunerazione dei dirigenti bancari, che per le banche di investimento potrebbe aprire una vera rivoluzione culturale, con tutto ciò che essa potrebbe determinare) ci dovremmo aspettare banche d’investimento relativamente più piccole di quelle pre-crisi, meno orientate al rischio e comunque dotate di controlli interni più efficaci di quelli classici. Ci dovremmo anche aspettare banche meno diversificate e più concentrate su poche attività, con un mix che varierà tuttavia da caso a caso secondo le tradizioni e le strutture, ma in ogni caso più orientate sui mercati domestici, anche qui con importanti eccezioni come Crédit Suisse, BarclaysCitigroup e Nomura, che continueranno a seguire la loro vocazione internazionale, orientandosi probabilmente di più verso mercati nuovi come quelli asiatici e latino americani.

Regole a parte, molto dipenderà anche da come si evolveranno l’economia reale e i mercati finanziari, nonché quelli delle materie prime, cui sono storicamente collegate molte attività delle banche di investimento.In ogni caso il 2010 ha dimostrato che:

a) gli spazi di mercato per le banche di investimento, che si davano quasi per spacciate solo un anno fa, ci sono e sono molto interessanti;

b) dette banche si stanno seriamente ristrutturando per potenziare i business più rilevanti per il conto economico e il patrimonio;

c) le loro strutture saranno meno omogenee di quelle degli ultimi anni precedenti la crisi, e questo creerà probabilmente delle nicchie specializzate in cui la concorrenza non sarà eccessiva;

d) nonostante tutto ciò, è ben difficile ipotizzare l’entrata di nuove banche d’investimento nel mercato, che sembra già sufficientemente presidiato;

e) resta interessante il gruppo delle cosiddette boutique, come Lazard o Rotschild, i cui problemi tuttavia sono completamente diversi da quelli degli istituti più grandi prima considerate;

f) vale la pena di ricordare che, piaccia o non piaccia, tutto quanto precede non riguarda l’Italia, dove con qualche modesta eccezione, peraltro del tutto particolare, la banca d’investimento non è mai stata praticata da nessuno.

In questo settore l’Italia continuerà a essere spettatrice e non protagonista, il che peraltro deve essere considerato del tutto naturale e non necessariamente negativo. L’importante per noi è giocare bene altre partite bancarie, diverse da quelle prima esaminate e più legate al tipo di economia e di società che ci caratterizza, nonché alle dimensioni e al grado di internazionalizzazione dell’economia italiana.


Autore: Roberto Ruozi
Fonte: Milano Finanza

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