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Capitali e strumenti alternativi: finanza e fintech per le Pmi

«Invece di lamentarsi delle cose che non ci sono, perché non usare quelle che invece già ci sono?». Ignazio Rocco di Torrepadula, fondatore di Credimi, se lo chiede da giorni. Lui si riferisce alle società fintech, che – a suo dire – potrebbero mobilitare anche 2 miliardi di nuovi finanziamenti per le piccole e micro imprese. Veloci,agili e garantiti dallo Stato. E la stessa domanda se la pone Giovanni Landi, amministratore delegato di Anthilia, pensando a strumenti finanziari poco diffusi in Italia ma pronti all’uso come i «commercial paper».

Ma forse questi sono interrogativi che dovrebbero porsi anche ai piani alti della politica italiana: se esistono strumenti finanziari in grado di dare una mano alle imprese, con capitali alternativi e non bancari, perché non favorirne l’utilizzo? Saranno piccoli, rispetto al problema. Certo. Ma perché non usarli comunque? In fondo ogni impresa salvata è un pezzo di Italia salvato. Ognuno può fare la sua parte.

Il mondo della finanza e del fintech in effetti potrebbe avere un ruolo nella grande emergenza economica in cui versano le imprese italiane. In questi giorni molti operatori finanziari di varia natura stanno provando a suggerire soluzioni integrative a quelle già pensate dal decreto liquidità. Con la consapevolezza che queste non possono essere risolutive, né per tutti, ma possono aiutare. E, soprattutto, possono portare alle imprese capitali privati di origine non bancaria: per esempio quelli dei facoltosi clienti del private banking. Gli strumenti per farlo esistono già.

Ci sono le commercial paper (cambiali finanziarie) ad esempio. Si tratta di strumenti di credito a breve e brevissimo termine (che aiutano le imprese a finanziare il circolante) usatissimi negli Stati Uniti, poco in Europa e quasi per nulla in Italia. Negli Usa quello delle commercial paper è un mercato da 1.149 miliardi di dollari (dato Fed), di cui 307 miliardi emessi da imprese non finanziarie. Nell’area euro (dato Bce) il mercato vale 860 miliardi di euro, ma è quasi interamente appannaggio delle banche: le commercial paper di imprese sul mercato ammontano a 99 miliardi. In Italia i numeri sono infinitesimali: il mercato vale solo 6,3 miliardi, di cui solo 2,3 emessi da aziende.

Eppure si tratta di un mercato che non ha bisogno di alcuna legge per partire: «Il Decreto Sviluppo del 2012 ha eliminato tutti gli impedimenti, anche fiscali, che ostacolavano lo sviluppo di questi strumenti – osserva Giovanni Landi di Anthilia, che da giorni sta suggerendo questo strumento -. Lo spazio per creare un mercato delle commercial paper c’è».

Anche Ignazio Rocco di Torrepadula con Credimi è al lavoro. Credimi è una piattaforma fintech che, tra le varie attività, eroga prestiti a medio termine a piccole e micro-imprese. Ora anche usando la nuova garanzia statale. Da quando è arrivata la crisi da coronavirus, ha registrato un aumento delle richieste da parte delle aziende, che hanno esaurito i fondi di Credimi. Così è nata una collaborazione con Banca Generali per lanciare una cartolarizzazione, cioè una duplice emissione obbligazionaria (una tranche senior e una junior) da 100 milioni. La tranche senior (che è garantita da crediti a Pmi a loro volta garantiti al 90% dallo Stato) è stata collocata ai clienti delle gestioni patrimoniali di Banca Generali con una cedola del 3%. La tranche junior (che assorbe le prime potenziali perdite) l’ha invece comprata il gruppo Generali.

«Questo è un modo per coinvolgere i capitali privati senza grandi rischi grazie alla garanzia dello Stato – osserva Ignazio Rocco di Torrepadula -. Sono soldi che non sarebbero andati alle Pmi». A suo avviso tutte le piattaforme di fintech simili potrebbero, insieme, attivare finanziamenti nuovi per 2 miliardi. Per molte microimprese può fare la differenza.

Ci sono poi altri strumenti finanziari che possono aiutare le imprese nella ripartenza, per esempio sostenendo la loro forza patrimoniale. Sono tutti quegli strumenti cosiddetti «equity like»: a metà strada tra debito e capitale. «Questi sono meno urgenti ora che le imprese hanno bisogno di liquidità a breve, ma servono per progettare e sostenere il futuro», spiega Landi. Ci sono per esempio i bond subordinati. O la grande famiglia dei «mezzanini». Il ventaglio è ampio: si tratta di strumenti che potranno sostenere le aziende una volta che, uscite dall’emergenza coronavirus, si troveranno ancora più indebitate e sottocapitalizzate.

Il problema è che questi sono mercati piccoli in Italia. Le «commercial paper» ammontano ad oggi a 2,3 miliardi. Il Fintech può arrivare a 2 miliardi. Ma anche i fondi di private debt e private equity, insieme, nel 2019 hanno investito appena 11 miliardi in Italia. Numeri ben lontani dalle esigenze di oggi. E che, per aumentarli, necessitano di capitali e di investitori che abbiano voglia di entrare in questi mercati.

Il punto è che se mai si parte, mai si arriva. In Italia c’è una grande ricchezza privata: lasciando da parte i piccoli risparmiatori (questi non sono strumenti adatti a loro), c’è però il mondo del private banking (cioè i grandi patrimoni) che potrebbe investire. Già oggi – secondo una recente ricerca di Politecnico di Milano, Aipb e Intermonte – degli 844 miliardi in gestione nel private banking in Italia ben 125,7 sono investiti in Pmi ed economia reale. Questa quota può aumentare: «Attualmente c’è un limite minimo di investimento ai fondi riservati agli operatori qualificati, pari a 500mila euro – osserva Anna Gervasoni, direttore generale Aifi -. Questo riduce molto la platea di soggetti che può investire, mantenendo un’ottica di diversificazione. Noi chiediamo che questa soglia venga abbassata a 100mila euro». Chissà, forse questa sarà l’occasione per sviluppare anche in Italia un mercato finanziario al servizio delle imprese invocato da decenni.

Autore: Morya Longo
Fonte: Il Sole 24 Ore