STUDI LEGALI: cosa è cambiato, cosa cambierà

Intervista all’Avvocato Dino Crivellari, Socio Fondatore STUDIO CRIVELLARI & PARTNERS LEGAL ADVISORS

L’abstract dell’intervista all’Avvocato Dino Crivellari è pubblicato sul CVM1/2020

Come è cambiato il lavoro degli studi legali negli ultimi 20 anni?

D.C. Gli studi legali sono uno dei settori economici che in Italia ha registrato i maggiori impatti per le trasformazioni del mercato di riferimento. Rispetto all’attività del recupero crediti, fino a fine Anni ‘90, il legale oltre che “bravo” doveva essere “introdotto” al cliente e nel tempo vedeva consolidarsi il rapporto con flussi crescenti di lavoro e livelli di remunerazione soddisfacenti grazie alla stabilità del decisore di riferimento e dei crediti affidati (“la materia prima”). Inoltre, si aveva una relazione operativa con la struttura interna dedicata alla gestione del contenzioso, che assicurava stabilità remunerativa e assenza di conflitto sul pricing della prestazione professionale.

Oggi non è più così?

D.C. Con il nuovo millennio proprio la caratteristica della stabilità è venuta meno:

  • i decisori con cui il legale vantava la relazione personale sono divenuti “precari” a causa dei continui cambiamenti di governance e strategie di business che hanno interrotto anche le relazioni con le strutture operative:
  • i crediti in gestione sono divenuti “merce” e sono stati trasferiti a operatori diversi dagli originator che di norma preferiscono utilizzare le proprie reti di legali fidelizzati e formati.

Il diffondersi dell’outsourcing a favore di operatori specializzati ha costretto i legali a confrontarsi con “centri di ricavo” che li considerano un “fattore di produzione” da ottimizzare anche in termini di costo operativo. Questo ha esposto gli studi legali ad una nuova concorrenzialità cui si è unita la necessità di dotarsi di tecnologie informatiche sempre più complesse ed invasive, estranee alle loro tradizioni culturali.

Tutto questo ha modificato il loro modus operandi?

D.C. La continua ricerca di efficienza dei nuovi operatori specializzati, in forte concorrenza tra loro, ha ridotto la valenza del “tasso di successo giudiziario” del legale che rappresentava la cifra dell’apprezzamento del cliente. Inoltre, il legale si è dovuto adeguare alla “velocità di reazione attesa” rispetto alle richieste del cliente che, di norma, è un’azienda con un modello organizzativo industriale piuttosto complesso. Basti pensare ai servicer che sono ormai il principale cliente dello studio legale che si occupa di recupero crediti.

Quali sono le criticità di questo cambiamento?

D.C. Oltre a dotarsi di competenze tecnologiche nuove, il legale ha dovuto organizzarsi per svolgere attività non strettamente giudiziarie come data remediation, due diligence, valutazione di portafogli, che hanno modificato l’organizzazione ed il bagaglio di competenza dello studio. Il vero punto critico è proprio qui: mentre l’efficienza del servicer si misura prevalentemente sulla velocità del conseguimento del risultato, quella dello studio legale, che deve trasformare il credito in denaro sotto il profilo giuridico, ha bisogno di approfondimenti e tempi che stridono con il business plan del servicer. Le diverse velocità fra le esigenze degli investitori in Npls e quelle delle procedure giudiziarie condiziona pesantemente il pricing delle cessioni. A farne le spese è proprio la remuneratività dell’attività legale.

Qual è il fattore principale che ha determinato questa trasformazione?

D.C. Nel momento in cui i crediti cattivi sono diventati merce e si è cercata l’efficienza nella gestione del loro recupero, il servicer non si è più potuto permettere di spendere più del ricavato ed ha iniziato a contenere le spese legali. Meglio un legale che che porta a casa un risultato stragiudiziale economicamente conveniente rispetto ad uno che vince le cause. Questo fenomeno ha ridotto l’onere legale ad un “costo di tutela” della posizione, necessario ma da comprimere il più possibile perché incide sul margine netto del recupero. Di conseguenza oggi l’80% del Pil dell’avvocatura italiana è prodotto da appena il 3% del totale degli avvocati, che lavorano per le law firm. Il restante 20% è appannaggio degli altri 240.000 avvocati iscritti alla cassa forense con una riduzione del fatturato che continua ad erodersi sotto la pressione della concorrenza.

Quali sono i prossimi sviluppi?

D.C. Tempo fa ho letto di una banca spagnola che, grazie ad un software messo a punto da una grande società di consulenza, sarebbe in grado di elaborare autonomamente 12.000 azioni legali all’anno riducendo del 45% le sue spese legali ed interrompendo i rapporti con gli 11 studi legali di cui si serviva. Si tratta di un fenomeno che si espanderà molto velocemente. Infatti, le sperimentazioni in questo campo si moltiplicano, anche se alcuni esperimenti di servicer italiani, come i “precettifici”, che producono atti giudiziari iniziali in serie e standardizzati, non hanno ottenuto risultati strepitosi a causa della complessità delle nostre procedure esecutive e dell’estrema diversificazione dei contratti all’origine del credito.
L’eccellenza del servicer si vede proprio nel riuscire a tenere insieme queste diverse ruote dell’ingranaggio che hanno velocità differenti. Potenziali vantaggi potrebbero derivare dall’affidarsi alla STP che annovera soci in gran parte dei fori, ma in questo caso il servicer accetta di incorporare il rischio di inefficienza e di default della STP e non sfrutta la competizione qualitativa tra gli studi legali.

Il mercato delle sofferenze riserva ancora qualche sorpresa?

D.C. Il mercato degli Npls è ormai un mercato affollato, in un certo senso maturo, che sta conoscendo una fase di progressiva perdita di efficienza, come testimoniano anche le recenti preoccupazioni espresse da Bankitalia a proposito delle performance inferiori alle attese per le operazioni di cartolarizzazione con GACS. Questo potrebbe comportare la necessità di aggregazione tra operatori per beneficiare dei vantaggi di scala ed essere in grado di assorbire più flussi di lavoro. Si guarda invece con interesseal settore della cessione di UTP rispetto ai quali gli studi legali dovranno assicurare le diverse modalità di intervento nella gestione dei crediti vivi, considerando che gli aspetti delle ristrutturazioni sono ben più rilevanti di quelle del mero recupero. Ma la concorrenza delle law firm sarà ancora più accanita.

Lo studio legale tradizionale quindi è destinato a scomparire?

D.C. Di sicuro lo studio legale come lo abbiamo conosciuto negli ultimi decenni, specie se di dimensioni modeste e con bassa capacità di diversificazione dell’offerta e mancata attitudine all’aggiornamento tecnologico, non avrà grandi speranze di sopravvivenza. Ma credo che tra qualche tempo, quando i servicer dovranno gestire quelle posizioni più complesse e coriacee, che non saranno state definite nella fase iniziale con la strumentazione stragiudiziale e le tattiche più aggressive rispetto a quelle degli originator, la “qualità” del legale che vince le cause tornerà di attualità. Resta però la necessità di un profondo ripensamento del “modello di business”.

Quali saranno i fattori di successo per sopravvivere?

D.C. In una prospettiva di non lungo periodo l’aggregazione tra professionisti nelle varie forme e la multidisciplinarietà saranno i fattori di successo, come hanno dimostrato le law firm. Ma il legale dovrà sviluppare la funzione di problem solver piuttosto che di mero litigator ed aumentare la sua offerta di consulenza e assistenza preventiva allo scopo di far evitare,per quanto possibile, al cliente la lite perché non è più detto che vincere sia l’unica soluzione.

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