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Banche, se il fondo Atlante non basta può intervenire lo Stato

“Un piccolo passo nella giusta direzione”: non lascia molti dubbi la risposta di Mario Draghi a proposito del fondo Atlante, lo strumento che con poco più di 4 miliardi di euro dovrebbe mobilitarne abbastanza per smuovere la montagna di oltre 200 miliardi di sofferenze bancarie che diventano 360 se l’orizzonte di allarga a i crediti deteriorati, i non-performing loans.

Questo significa che molto probabilmente Atlante non sarà sufficiente a stabilizzare il sistema bancario italiano e dunque sarà necessario cercare soluzioni diverse, allargando l’orizzonte a interventi che potrebbero apparire non del tutto ortodossi. Uno di questi, probabilmente il più incisivo, è quello che passa dall’intervento diretto dello Stato nel capitale delle banche in difficoltà. Il modello è quello delle BIN, le banche d’interesse nazionale, create con la legge bancaria del 1936 e partecipate dall’Iri. Allora, in analogia con quanto accade oggi, si trattava di superare la crisi dei primi anni 30 tutelando il risparmio e riattivando il credito.

Per perseguire queste due esigenze (è qui che emerge l’interesse nazionale) lo Stato potrebbe creare due o tre “nuove Bin” acquisendo di ciascuna una quota di dimensioni compatibili con il “principio dell’investitore privato” e rispettando così i vincoli imposti dalle regole europee sugli aiuti di Stato. Tutte le banche in difficoltà, le ex popolari e le Bcc dovrebbero essere obbligate a confluire nelle nuove Bin. Verrebbero condivisi i rischi ma soprattutto verrebbe condiviso il patrimonio, creando una massa critica che – anche grazie all’apporto di capitale da parte dell’azionista pubblico – sarebbe in grado di reggere il peso delle sofferenze e degli Npl nel breve-medio periodo programmandone la progressiva riduzione nell’arco – per esempio – di un decennio.

Qual è la quota di capitale pubblico massima compatibile con le norme europee sugli aiuti di Stato? «Non c’è un limite prefissato» spiegano gli esperti di diritto comunitario. “A spanne potrebbe essere tra il 20 e il 25%». Ma soprattutto «c’è un precedente importante a cui poter fare riferimento: è la decisione sull’ingresso dello Stato francese nel capitale del gruppo Psa”, la casa automobilista in cui da fine 2013 l’azionista pubblico ha il 14,13%, una quota uguale a quella della famiglia Peugeot e a quella di Dongfeng Motor (Hong Kong). «L’ingresso dell’azionista pubblico nel capitale della casa automobilistica – ricordano a Bruxelles – è avvenuto con il via libera delle autorità europee, grazie ad un aumento di capitale a cui hanno partecipato altri sottoscrittori privati (tra cui il gruppo cinese) alle stesse condizioni di mercato. Lo Stato, dunque, viene trattato allo stesso modo degli investitori privati». Inoltre, i capitali pubblici impiegati in una iniziativa del genere non alimenterebbero il deficit ma sarebbero contabilizzati, appunto, come investimenti.
Nel caso in cui si seguisse questa strada per le banche italiane – assicurano gli esperti – sarà la Commissione europea, e in particolare la Dg Concorrenza, a dover dimostrare che si tratta di un aiuto di Stato e non di un’operazione di mercato. L’azionista pubblico, inoltre, potrebbe impegnarsi a cedere le proprie quote azionarie sul mercato trascorso un congruo lasso di tempo sufficiente a smaltire gli Npl e a consolidare i nuovi istituti di credito.

A prima vista l’ipotesi di ricorrere al modello delle Bin (Banco di Roma, Banca Commerciale e Credito Italiano per ricordarne i nomi) può apparire antistorica ma in realtà avrebbe senso sia in un’ottica di tutela del risparmio sia in funzione della riattivazione del mercato del credito. Darebbe inoltre un contributo importante a sradicare la “nuova” foresta pietrificata del sistema bancario italiano. Un sistema “malato di governance più che di finanza”, in cui piccoli e piccolissimi potentati locali troppe volte usano il credito come mezzo per l’esercizio del potere piuttosto che come strumento per innescare lo sviluppo economico. E’ di ieri l’articolo di Fabio Pavesi sui prestiti milionari che la Popolare di Vicenza aveva concesso al presidente Zonin e ai vecchi membri del cda.Ma probabilmente è proprio questo effetto indesiderato – spazzare via centinaia di poltrone ognuna delle quali presidia saldamente una piccola nicchia di potere – l’ostacolo più forte ad una soluzione così radicale del nodo bancario italiano.


Autore: Giuseppe Chiellino
Fonte:

Il Sole 24 Ore

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