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Cade l’alibi per la crisi del credito

Con le misure annunciate nei giorni scorsi, il sistema bancario italiano può finalmente mettersi alle spalle la crisi più grave del dopoguerra, che dal 2008 al 2014 ha aumentato il fardello dei crediti deteriorati di oltre 220 miliardi, portandolo al 17,7 per cento dei prestiti. Sono in un certo senso le riforme necessarie per far sì che i colpi del “bazooka” del Quantitative easing della Bce vadano a segno e si trasformino in credito all’economia.

Il che significa che da oggi non ci sono più alibi per giustificare il protrarsi di un credit crunch che alla fine di febbraio risultava ancora consistente, sia pure in attenuazione: -2 per cento in ragione d’anno per la generalità del settore manifatturiero e -3,3 per le piccole imprese. La storia delle crisi finanziarie come quella del Giappone o dei paesi nordici insegna che quando i crediti di dubbia qualità continuano a pesare sui bilanci bancari, l’offerta di nuovo credito risulta frenata: non solo la risorsa più scarsa, che è il capitale regolamentare, viene assorbito in misura eccessiva dall’eredità del passato, ma aumentano anche i costi di raccolta perché il mercato richiede un compenso per la maggiore incertezza sulla robustezza futura delle banche. Anche recenti ricerche della Banca d’Italia confermano che gli intermediari che registrano un elevato deterioramento della qualita? del credito restringono l’offerta di fondi e aumentano i tassi di interesse.Il deterioramento del credito è però destinato a perdurare: se tutte le previsioni dicono che il punto peggiore è stato raggiunto nel 2014, è anche vero che il fenomeno è destinato a rimanere su livelli sempre elevati rispetto al passato. Una recente stima Abi-Cerved prevede nel 2016 per tutte le classi di credito alle imprese percentuali di ingresso in sofferenza che vanno dall’1,3 per cento per le grandi imprese al 3,2 per le micro, cioè valori sostanzialmente doppi del 2007. Il Governo ha deciso di intervenire sui tre elementi principali che possono indurre le banche a rinviare alle calende greche il momento dell’accertamento delle perdite: gli ostacoli fiscali, quelli connessi al sistema legale e infine la mancanza di un organismo che accentri la gestione dei crediti deteriorati.

Sui primi due fronti, l’Italia presenta elementi che oggettivamente penalizzano le banche e dunque il sistema imprenditoriale. Il problema fiscale è noto e deriva dal fatto che l’orologio del fisco è gravemente in ritardo rispetto a quello del mercato. Ma quelli legali non sono da meno. Nell’ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria del Fondo monetario un grafico dimostra la stretta correlazione fra il processo di pulizia dei bilanci bancari e la qualità del sistema legale di ciascun paese e l’Italia è, non sorprendentemente, il fanalino di coda. In particolare, i tempi di recupero dei crediti e delle procedure di insolvenza sono molto più lunghi rispetto alla media Ue, oltre che molto variabili tra le diverse regioni e, all’interno di ciascuna di esse, tra i diversi tribunali.

Ancora più importante è la possibilità che finalmente si apre per attivare un mercato “di sistema” per la cessione di partite deteriorate, irrobustendo un flusso finora marginale a livello complessivo (7 miliardi nel biennio 2013-2014). Si tratta della tanto attesa bad bank, brutto termine per definire una società specializzata nell’acquisire crediti deteriorati e nel gestirli al meglio. Come hanno dimostrato le esperienze di crisi passate, ma anche i casi recenti di Irlanda e Spagna, i vantaggi sono cospicui: si riducono i costi di gestione, si superano le difficoltà collegate alla mancanza di know-how da parte delle banche più piccole, si aumenta la trasparenza dei prezzi di cessione, un elemento essenziale in un mercato dei prestiti frammentato in molte piccole partite e facilmente preda di procedure non corrette nei confronti dei debitori, quando non addirittura illegali. Una gestione accentrata non può che portare vantaggi. Non a caso la Banca d’Italia stima che nei paesi europei che hanno intrapreso la via della bad bank, a questa faccia capo circa il 40 per cento delle transazioni di crediti deteriorati.

Da oggi dunque è lecito attendersi che le banche italiane riprendano ad erogare credito al settore produttivo, sia per l’attività corrente sia per gli investimenti, caduti in Italia assai più della media europea. Ma il problema finanziario per le imprese non è solo quantitativo. Certo è importante che si prevedano flussi di credito bancario alle imprese positivi (Prometeia stima per il 2015-16 una crescita di oltre 40 miliardi, contro una riduzione di 64 nel biennio precedente), ma se si vuole davvero recuperare il ritardo che abbiamo accumulato rispetto agli altri paesi, occorre sfruttare a pieno questa fase di svolta per superare i problemi strutturali delle nostre imprese e in particolare superare la carenza cronica di capitale di rischio e di strumenti alternativi al credito bancario.

La Commissione europea con un recente Libro verde ha aperto un dibattito sulle misure necessarie per realizzare entro il 2019 un mercato europeo dei capitali più ampio e diversificato e in particolare per favorire le emissioni di titoli da parte delle imprese, anche medie e piccole. Perché questo obiettivo non rimanga – come è già accaduto tante volte – una pia illusione occorrerà una grande capacità delle banche di sviluppare nuovi strumenti e nuovi servizi, soprattutto quelli che aiutano le imprese a realizzare processi di innovazione e di ristrutturazione. Che, da sempre, sono il sale del rapporto banca-impresa e della capacità della prima di sostenere i processi di crescita di lungo periodo della seconda, come hanno fatto nel passato uomini della tempra dei Beneduce e dei Mattioli. «Ritorno al futuro» era un film per molti versi istruttivo: forse anche per i banchieri italiani di oggi.


Autore: Marco Onado
Fonte:

Il Sole 24 Ore

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