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Report, Moncler e quelle delocalizzazioni a Est

La questione delle delocalizzazioni vive di luoghi comuni o al limite di eccessiva linearità nel racconto. Il servizio lanciato domenica sera sera da Report, la trasmissione di Milena Gabanelli, non si è discostato troppo da questo schema. Ancora una volta, a partire da una inchiesta sulla Moncler (che intanto ha dato mandato ai suoi legali di procedere contro la trasmissione), è emersa l’immagine delle imprese italiane in fuga, dello spostamento all’estero di segmenti della filiera produttiva, del deserto industriale che nel nostro paese guadagna chilometri e dell’Est come grande prateria, pronta a offrire condizioni industriali favolose e stipendi miseri. Esiste anche questo, ma non è solo questo.

Intanto, a proposito di stipendi, ci si potrebbe chiedere: se mai un’azienda svedese investisse in Italia, pagherebbe i suoi dipendenti italiani con i salari che circolano a Stoccolma? No di certo. Le buste paga non seguono il principio del paese d’origine. Ne consegue che le imprese italiane che aprono fabbriche nell’Europa ex comunista o si appoggiano a ditte locali remunerano generalmente i propri dipendenti secondo le dinamiche salariali dei mercati dove vanno a operare. Non automaticamente si sconfina del campo dello sfruttamento, volendo tagliare corto.

I salari, in riferimento ai paesi dell’Europa centrale entrati nell’Ue nel 2004 e alla Romania, dove la presenza italiana è più consistente che altrove, sono tra l’altro cresciuti, rosicchiando un po’ dei vantaggi di costo. Tanto che in Romania – dato interessante – le aziende italiane iniziano a lavorare sull’alta gamma.

Se la delocalizzazione rallenta

Procediamo comunque con ordine. Ponendoci una serie di domande e cercando di sfatare qualche falso mito, senza la pretesa di prendere parte, tifando Report o la Moncler. Le prime questioni sono queste: a che punto è la curva della delocalizzazione? In che misura tange l’Est? A marzo dello scorso anno la Cgia di Mestre, diretta da Giuseppe Bortolussi, s’è come al solito sporcata le mani, incrociando tanti dati. Ne è venuta fuori una fotografia spiazzante: la crisi ha messo la zavorra alla delocalizzazione. Nel periodo 2008-2011 le imprese con fatturato superiore a 2,5 milioni di euro che hanno trasferito all’estero segmenti di produzione – si legge sul sito della Cgia di Mestre – sono state 27.100, appena il 4,5% del totale. Percentuale molto ridotta, rispetto al 65% del periodo 2000-2011.

Nella stessa ricerca emerge un’altra sfaccettatura interessante. I paesi dove le aziende italiane tendono prevalentemente a traslocare non solo quelli dell’Est, ma Francia, Stati Uniti e Germania. In quest’ordine. Segno che, registrava Bortolussi all’uscita del rapporto, la competitività è un principio che va oltre il semplice fattore costo o tasse.

Si guarda infatti alla sicurezza dei rimborsi e dei pagamenti, come all’efficienza del sistema giudiziario. Qualità dove l’Italia riscontra delle carenze. Non soltanto rispetto a Francia, Germania e Stati Uniti, ma anche allo stesso Est. Basterà consultare, su questo punto, i principali indici mondiali sulla competitività, primo tra tutti l’Ease of Doing Business della Banca mondiale, che certifica la facilità nel fare impresa (licenze, sicurezza dei contratti e altri parametri simili).

L’ultima edizione è stata appena diffusa e tante sono le nazioni dell’Est che surclassano l’Italia, al 56° posto in questa particolare graduatoria. È il caso di Georgia, Estonia, Lettonia, Macedonia, Polonia, Montenegro, Repubblica ceca, Slovacchia, Bulgaria, Romania, Slovenia, Ungheria e Turchia. Paesi, questi, che, partendo dall’assoluta esigenza di attirare capitali, hanno cercato di sviluppare nel corso degli anni un business environment, come lo chiamano gli economisti, di buona caratura. In altre parole, gli stati dell’Est non fanno solo concorrenza sleale e al ribasso, ma hanno cercato con successo di costruire dei sistemi paesi brillanti e attrattivi.

Roberto Corciulo è il titolare di IC & Partners, struttura di Udine che fa consulenza d’impresa e che da anni si occupa di internazionalizzazione a Est. Lo raggiungiamo al telefono mentre sta viaggiando in treno in Polonia. Corciulo sottolinea con vigore la crescita competitiva dell’Est, dove è proprio la Polonia a giocare la parte della protagonista. Qui – afferma il nostro interlocutore – si aprono centri servizi volti a calamitare intelligenze, investimenti e risorse; c’è uno stato che lavora bene e riesce a catapultare sul territorio le risorse, come nel caso dei fondi strutturali, assorbiti molto efficacemente (l’Italia su questo fronte è messa male); il sistema dell’istruzione è buono e i giovani polacchi padroneggiano bene l’inglese, aprendosi al mondo e all’innovazione.

Siamo poco tecnologici

Si va dunque fuori, all’estero, anche in virtù di questi motivi. L’Italia offre poco, l’Est molto. Ciò non significa che le imprese italiane non abbiano le loro responsabilità. Veniamo allora a un’altra domanda: dov’è che le nostre imprese hanno sbagliato? Nell’ultimo numero di Pagina 99 Nicolò Cavalli ha indagato sui limiti del sistema industriale italiano, segnalando che le nostre imprese, a confronto di quelle tedesche e francesi, scontano seri ritardi tecnologici. La vita media dei macchinari, scrive Cavalli, è passata dai nove anni del 1992 ai diciannove del 2013. Le aziende sono rimaste indietro, trovandosi a perseguire un modello di specializzazione in settori a media e bassa tecnologia, dove la competizione internazionale si fa più forte.

Spostarsi all’estero può insomma essere una scelta, ma anche un obbligo, creato in ogni caso da un’incapacità di guardare al lungo periodo e di giocare sulla disponibilità di capitale fresco. Tema sul quale entra in gioco, però, anche l’approccio delle banche, restie come si sa a mettere mano ai cordoni della borsa.

I due Est

Massimo Iacovazzi è il numero uno di Koiné Adriatica, società di consulenza con sede a Novi Sad, il capoluogo della regione più avanzata della Serbia, il più recente degli “eldoradi” dell’industria italiana. Nel corso della sua esperienza in Vojvodina, Iacovazzi ha potuto constatare che sì, esistono anche casi come quelli raccontati da Report, non legati solo all’alta moda, ma sono minoritari. Solitamente l’imprenditore italiano non fa il biglietto di sola andata. Non vuole chiudere i battenti in Italia.

Oltre a questo c’è da dire – così spiega Iacovazzi – che spesso non c’è neanche la preparazione culturale necessaria a intraprendere una simile rottura. Più comunemente, si delocalizzano alcune fasi della produzione e si lasciano in Italia quelle a più alto valore aggiunto. È l’interazione tra il deficit competitivo del paese e il sistema che abbiamo voluto prediligere (secondo Corciulo l’Italia era una sorta di “Cina europea”) che porta a questo. La nota positiva è che in questo modo, in Italia, si salva qualcosa. Quella negativa è che la deindustrializzazione va avanti.

Non tutto, a ogni buon conto, si spiega con questa logica. È sempre Iacovazzi a riferire che molte aziende italiane guardano all’internazionalizzazione come alla possibilità di penetrare sui mercati esteri, anche quelli dell’Est, dove c’è una classe media in ascesa. Bisogna tuttavia differenziare: c’è un Est che corre di più e uno che fatica ancora a uscire dalla transizione, con tutte le criticità che essa genera. Chi punta sui Balcani lo fa principalmente in un’ottica di resource-seeking (attenzione ai costi), chi all’Europa centrale e alla Russia pensa anche in chiave di market-seeking (focus sui mercati).

Senza contare che a migrare non è la sola manifattura. Il comparto dei servizi sta prendendo progressivamente il sopravvento.

Tiriamo le somme e chiediamoci: Report ha fatto la sua buona inchiesta, segnalando come il Made in Italy e magari l’intero apparato industriale del paese si fonda a volte sulla delocalizzazione selvaggia, in barba alle regole? Forse sì. Ma – ultima domanda – si può costruire una simile linea narrativa senza tenere conto del rapporto tra l’Italia e l’Est, in tutte le sue articolazioni e nella sua incredibile complessità?

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Autore: Matteo Tacconi
Fonte:

Europa Quotidiano

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