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Cinque mosse per salvare l’Italia

La crisi economica che l’Occidente sta vivendo trabocca di paradossi e situazioni confuse. Uno dei grandi paradossi è che nel 2012, soprattutto in Europa, si reagisce con un conservatorismo fiscale di stampo thatcheriano e con una liberalizzazione di stile reaganiano – in particolare da parte del governo di Mario Monti che gode tuttora del sostegno popolare – a quel tracollo finanziario la cui responsabilità nel 2008 era stata in linea generale fatta risalire a una creatura mitologica detta “neoliberalismo”, di solito associato proprio a Ronald Reagan e a Margaret Thatcher.

Un secondo aspetto paradossale è che a beneficiare politicamente di questa presunta crisi del capitalismo siano per lo più i partiti della destra, non della sinistra. I partiti europei di sinistra, infatti, sono in pieno stato confusionale, e tra di loro il più confuso di tutti è il Partito democratico italiano, che sembra incapace di decidere per che cosa e chi essere pro o contro. Indubbiamente, è troppo presto per conoscere con certezza come saranno le nostre economie capitaliste di mercato e le nostre società democratiche quando usciranno dalla crisi, in quanto incombono nuovi sconvolgimenti, e saranno da evitare nuove bombe a orologeria che hanno la potenzialità di colpire l’ambito politico e sociale nel quale operano i nostri capitalismi. Il probabile default debitorio di Atene e l’uscita della Grecia dalla zona euro è soltanto una delle questioni aperte che restano da affrontare.

Nondimeno, se teniamo conto della situazione dalla quale sono partiti i nostri Paesi, degli errori che sono stati commessi, dei paradossi che caratterizzano questa crisi, è possibile individuare alcuni principi chiave che probabilmente influenzeranno il nostro futuro, se i Paesi occidentali dovranno essere veramente in grado di tornare a essere fiorenti, riconquistare la loro stabilità e forza sociale e continuare a prosperare. Tenendo in mente per lo più la situazione italiana, vorrei suggerire per il futuro l’adozione dei seguenti cinque principi.

Il primo principio da adottare è che democrazia e capitalismo devono essere tenuti rigidamente e rigorosamente separati. Negli ultimi vent’anni l’Italia è diventata campionessa del mondo di infrazione di questo principio democratico, allorché ha autorizzato (e scelto) uno dei suoi imprenditori più ricchi – nonché proprietario di mezzi di informazione – e permesso che abbinasse a tali professioni quella dell’uomo di governo. I principali responsabili che hanno reso possibile tutto ciò sono stati i partiti di centro e di sinistra, specialmente quelli facenti parte dei governi di coalizione di maggioranza alla fine degli anni Novanta che, pur avendo l’opportunità di legiferare in proposito, omisero di farlo. Ne è risultata una madornale ingiustizia nei confronti della legalità, giacché sia Silvio Berlusconi in persona sia qualsiasi azienda a lui legata hanno avuto il potere di ribaltare a loro favore le leggi e le decisioni dell’opinione pubblica e lo hanno fatto di frequente. Di conseguenza il capitalismo predatorio ha ricevuto una sorta di superpotere.

Ormai quanto è accaduto dovrebbe essere lampante, ma quando incontro i politici del Pd – giovani o anziani – spesso mi rendo conto che non comprendono ancora adesso perché tutto ciò è di somma importanza. Sembrano quasi ritenere che il “conflitto di interessi” si limitasse a concedere a Silvio Berlusconi un mero vantaggio al momento della campagna elettorale. In effetti così è stato, ma l’aspetto più importante è che in verità tutto ciò ha trasformato un governo democratico nello strumento di potere del singolo. Ecco: questo ruolo cruciale del governo, in una democrazia moderna, va interamente ricostruito, facendo sì da garantire che in futuro il potere privato e le istituzioni pubbliche restino quanto più possibile separate. Se in Italia non si approverà una legge efficace sul conflitto di interessi – diciamo al massimo entro i prossimi due anni (in altri termini subito dopo le elezioni del 2013) – si avrà la dimostrazione che la classe politica italiana ha uno scarso interesse per la democrazia e l’eguaglianza giuridica o per comprendere il loro funzionamento, e verosimilmente ne ha uno altrettanto scarso nel regolamentare in modo adeguato il potere capitalista privato.

Il secondo principio è che il ruolo del governo deve cambiare: da erogatore di finanziamenti deve diventare arbitro indipendente. Il problema dell’immenso debito pubblico comporta l’obbligo per il governo di restringersi, in termini di dimensioni della spesa pubblica, e praticamente in tutti i Paesi occidentali. Se si pensa di affrontare debito e deficit più che altro tramite l’aumento dell’imposizione fiscale, ne conseguirà semplicemente una crescita economica più lenta. Di conseguenza è indispensabile tagliare le spese. Al contempo, però, il governo deve diventare più forte, tenuto conto che ad aver portato all’attuale crisi è stato proprio il venir meno del governo ad agire in qualità di arbitro trasparente, imparziale ed efficace sul capitalismo. L’Italia costituisce un caso singolare ma molto importante: la stranezza è dovuta al fatto che dagli anni Settanta l’Italia ha abbinato un elevato livello di spesa pubblica rispetto al Pil (“big government”) a un’amministrazione debole e inefficiente.

La maggior parte degli stranieri resterebbe sbalordita apprendendo che, malgrado abbia il terzo debito pubblico più grande al mondo, l’Italia non ha vere e proprie indennità di disoccupazione, ha un welfare state poco uniforme, ha infrastrutture obsolete, un sistema delle forze dell’ordine e giudiziario inadeguato ad affrontare il crescente problema della criminalità organizzata. In qualità di arbitro – o agente – del capitalismo, lo Stato italiano ha fallito con modalità diverse rispetto a quelle dello Stato americano (che è venuto meno in modo disonorevole nel regolamentare il settore finanziario), ma ha fallito in ogni caso: ha mancato di far rispettare la legalità, ha fallito nell’assicurare una giustizia in tempi rapidi e giusta, ha fallito nel garantire prestigio internazionale e università meritocratiche (a che cosa dovrebbero servire le università, se non per eccellere?) e infine ha fallito nell’aver cura del patrimonio culturale italiano.

Il terzo principio scaturisce da quanto detto in merito alla cultura: bisogna assolutamente liquidare i vecchi pregiudizi ideologici a favore o contro la proprietà pubblica o privata. Del resto, questi avrebbero dovuto terminare in ogni caso con la fine della Guerra Fredda. In un mondo nel quale non è più possibile ricorrere a generosi prestiti pubblici e nel quale si è dimostrato che il governo si è rivelato inefficace e spesso corrotto, è indispensabile trovare nuove soluzioni. Benché ce ne siano molti altri, i beni culturali italiani costituiranno un ottimo banco di prova. I fondi disponibili necessari a mantenere e a mettere in mostra il fantastico patrimonio storico e culturale di questo Paese sono stati ridotti, ma in pari modo si è ridotta la fiducia nelle capacità effettive dello Stato di saper amministrare oculatamente ed efficacemente quei beni.

Malgrado ciò, la privatizzazione dei beni culturali è da tempo tabù, soprattutto agli occhi della sinistra: da qui l’occupazione l’anno scorso del Teatro Valle di Roma, per impedirne l’eventuale vendita. Senza capitali privati e senza gestione, però, i beni culturali italiani si deterioreranno ancor più. Ciò che serve è un misto di controllo statale e investimenti e amministrazione privata: questa è la formula lanciata per il Museo Egizio di Torino nel 2005, che da allora ha raddoppiato il numero dei visitatori l’anno, ha salvato dall’oblio alcune collezioni precedentemente trascurate e ha restaurato l’intera struttura.

Peccato che quell’esempio non sia stato ripreso altrove. Invece, è proprio questo che dovrebbero cercare di ottenere gli occupanti del Teatro Valle e i loro sostenitori tra le élite culturali: finanziamenti privati sottoposti alla supervisione dello Stato. Indubbiamente ciò non è facile, soprattutto in un Paese nel quale le Authority si politicizzano nel volgere di poco tempo. Ma cercare di affrontare questo punto debole è un imperativo cruciale e categorico. Se le Authority fossero affidabili, per esempio, non ci sarebbe niente di male a privatizzare le riserve d’acqua.

Il principio numero quattro è che si renderà necessaria una maggiore filantropia da parte delle grandi aziende, non soltanto a sostegno della cultura, e tale filantropia dovrà essere incoraggiata da incentivi fiscali. In passato probabilmente si è creduto che fosse più conveniente tassare le aziende e i loro ricchi proprietari e far spendere gli introiti allo Stato. Ma ne sono conseguiti sprechi, politicizzazione ed evasione fiscale. In parte si sopperirà al problema dell’equità e della penuria finanziaria italiana dando la caccia agli evasori fiscali, se tale caccia sarà protratta nel tempo. Ma quantunque essa sia indispensabile, non porterà molto lontano. Molto di più si potrebbe ottenere incentivando fortemente i proprietari della ricchezza privata a utilizzarla in modo tale da fornire più beni e servizi pubblici, come istruzione, ricerca, welfare, assistenza sanitaria e cultura, come accade negli Stati Uniti con risultati egregi.

Parlando del quinto e ultimo principio, ritorniamo alla liberalizzazione e al ruolo del governo. Se si deve veramente ripristinare il dinamismo economico dell’Italia, allora la supremazia del made in Italy deve sparire. Le pressioni di Confindustria e un cordiale attaccamento storico nei confronti dell’artigianato ha indotto fin troppi governi italiani a credere che il loro ruolo dovesse essere di supporto o di protezione del processo produttivo, più che di qualsiasi altro settore, nell’ottica che l’Italia è brava in quello. Beh, se è vero, allora ciò significa che soltanto un quinto della sua economia funziona bene, perché questa è la percentuale riconducibile al settore manifatturiero. Ma se ciò fosse vero, allora la crescita economica italiana negli ultimi dieci anni non sarebbe stata un terzo di quella francese. In realtà, quantunque il Paese sicuramente abbia eccelse industrie manifatturiere, il suo futuro – come potrebbero dire gli affiliati al movimento Occupy – non deve dipendere da un’attività di minoranza, ma dal 100 per cento dell’economia, comprensiva di tutti i servizi così come della produzione manifatturiera. In altre parole, quindi, il governo deve agire da arbitro e intermediario a favore dell’intera economia, non soltanto di un unico suo comparto attualmente in declino.

 

Traduzione di Anna Bissanti.  Bill Emmott è giornalista, scrittore, ex direttore di “The Economist”, collaboratore di “The Times”. Il suo libro più recente è “Forza Italia – Come ripartire dopo Berlusconi” (Rizzoli)


Autore: Bill Emmott 9-03-2012
Fonte:

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