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Il vento è cambiato ma…

 

L’intervento congiunto delle banche centrali a sostegno degli istituti di credito europei sembrava aver instaurato un clima di collaborazione contro la crisi. Ma a Breslavia le aspre critiche rivolte a Geithner sono state una doccia fredda. E per l’Italia ora Moody’s è una spada di Damocle Fino al pomeriggio di venerdì 16 settembre sembrava che gli operatori nelle dealing room di banche e broker potessero brindare allo scampato pericolo.

L’apertura di finanziamenti illimitati in dollari da parte di Bce, Fed, BoE, BoJ e Bns alle istituzioni creditizie europee aveva infatti tutte le carte in regola per fugare dubbi e timori sulla tenuta del sistema bancario, che la scorsa settimana, soprattutto in Francia, stava per innescare una crisi di liquidità tale da scatenare una corsa al ritiro dei depositi. Al punto che già sui mercati si ipotizzava una possibile rinazionalizzazione delle banche transalpine. Tuttavia, sul finire della seduta di venerdì 16, è bastato che si diffondessero timori di un declassamento del debito sovrano dell’Italia da parte di Moody’s da Aa2 a Aa3 per fare invertire la rotta all’indice Ftse Mib di Milano e al Cac40 di Parigi, cioè gli indici su cui la banche italiane hanno maggiore effetto.

Perché due delle tre più grandi banche transalpine, Bnp paribas e Crédit Agricole, sono pesantemente esposte sull’Italia, controllando rispettivamente Bnl e Cariparma. E le banche italiane sono forti sottoscrittori di titoli di Stato italiani. Secondo gli economisti, le quotazioni dei Btp già scontano in gran parte un declassamento, atteso entro il 23 settembre, secondo quanto appreso da Milano Finanza (si veda la tabella a pag. 9). «Tuttavia», spiega Luca Mezzomocapo economista di Intesa Sanpaolo, «una reazione alla notizia non è da escludere». Ma se il Ftse Mib venerdì 16 ha chiuso in ribasso dello 0,65% e il Cac40 dello 0,48% (in Italia Unicredit è caduta del 7%, come Mediobanca, seguita da Intesa Sanpaolo con un meno 2,8%) dopo essere arrivati entrambi a guadagnare l’1,6%, vuol dire che la tensione sul tema del debito è tutt’altro che dissipata.

E non hanno certamente aiutato le notizie provenienti da Breslavia, sede dell’ultima riunione dell’Eurogruppo, nel corso della quale gli Stati membri hanno dato due settimane di tempo alla Grecia per adottare le misure necessarie a ottenere la sesta tranche da 8 miliardi di dollari del prestito accordatole dalla Troika Ue-Fmi-Bce, e inoltre all’opposizione della Finlandia a ulteriori aiuti alla Grecia si sono aggiunte quelle di Olanda, Austria, Slovenia e Slovacchia.Cosa ha portato a una tale esasperazione delle tensioni finanziarie in Europa a partire da giugno, con quotazioni di borsa in discesa, divaricazione degli spread sui debiti pubblici dei Paesi periferici, ma soprattutto perdite preoccupanti sulle quotazioni dei titoli bancari un po’ dappertutto?

È successo che la peculiarità del mercato finanziario europeo e la strategia adottata in quest’area per finanziare i debiti pubblici abnormi derivanti dalla crisi hanno messo le banche europee in una situazione di estrema difficoltà. Infatti, se è vero che Usa ed Europa sono accomunati dal problema del finanziamento del deficit pubblico, che assorbirà risorse ulteriori anche nei prossimi anni fino alla stabilizzazione del debito, c’è una profonda differenza nel peso che hanno banche e intermediari non bancari e soprattutto nel ruolo che hanno avuto nel finanziamento dell’imponente debito pubblico creato per fronteggiare la crisi.C’è una profonda asimmetria tra le due sponde dell’Atlantico.

Il debito pubblico americano, eccettuato quello detenuto dalla Banca centrale della Cina che negli anni scorsi ha provveduto in modo cospicuo al suo finanziamento, non è detenuto dal sistema bancario americano, ma da fondi monetari. Si tratta di operatori non bancari, che non ricadono nella sfera della vigilanza della Fed, non hanno accesso alla liquidità offerta da quest’ultima e non sono tenuti a rispettare gli obblighi di capitalizzazione previsti da Basilea III.

Sono invece le riserve obbligatorie delle banche a dover essere impiegate in titoli del debito federale, ma per essere depositate presso la Fed: tanto più cresce l’attività creditizia, tanto più sono tenute a finanziare il Tesoro americano, così questi acquisti non rilevano ai fini del rating. In Europa, invece, non solo le regole sulla riserva obbligatoria non impongono l’obbligo vigente negli Usa, ma il ruolo delle banche nel finanziamento dei debiti pubblici è aumentato a dismisura. A questo proposito, però, le autorità di vigilanza sul sistema bancario li hanno esclusi in via regolatoria dalla valutazione mark-to-market, per evitare fluttuazioni nel valore. Siamo così in presenza di una doppia rappresentazione del valore dei titoli di Stato europeo, visto che tutti gli altri operatori finanziari tengono conto dell’andamento sul mercato di questi titoli.

La crisi del debito pubblico greco è paradigmatica di quanto è successo: la traslazione del rischio sul creditore bancario, sottoscrittore dei titoli. Fino al dicembre del 2010 le banche europee hanno assorbito la gran parte del maggior debito pubblico riuscendo ad evitare i traumi della vicenda greca attraverso l’intervento congiunto di Fmi-Ue-Bce. A quel punto la Germania ha proclamato a voce alta la necessità che anche i sottoscrittori privati del debito pubblico greco avrebbero dovuto fare la loro parte di sacrifici. Nonostante la ferma opposizione della Bce a qualsiasi credit event sul debito greco, sono bastate queste parole a spezzare l’incantesimo della valutazione alla pari di questi titoli. Da quel momento, le banche europee hanno messo ridotto notevolmente gli acquisti di titoli di Stato: è mancato all’improvviso il supporto strategico su cui si è fondata per oltre due anni la strategia di finanziamento dei debiti pubblici europei. Con il risultato che i tassi di interesse sono saliti bruscamente, creando il presupposto per più ampie perdite potenziali sullo stock di titoli in possesso delle banche.

Gli stress test sulla tenuta del sistema bancario, seppure fondati su ipotesi macroeconomiche negative e non di default di debiti sovrani, e le proiezioni sulle ricapitalizzazioni necessarie per adeguarsi alle prescrizioni dell’Accordo di Basileanon hanno fatto altro che aumentare la percezione delle difficoltà delle banche.Finché è stata solo l’Italia a soffrire, quando c’è stata la baraonda sui mercati, nessuno si è mosso. Ma quando anche le banche francesi hanno cominciato a traballare pericolosamente, la Bce ha capito che la ricetta tedesca era fiele anche per lei. Così ha chiesto la solidarietà internazionale, che non era riuscita ad ottenere all’interno dell’Unione: la rottura con la Germania si era fatta insanabile, simboleggiata dall’uscita del tedesco di Jurgen Stark dal direttivo di Eurotower.

«L’intervento concertato delle banche centrali stende una sorta di rete di sicurezza intorno al sistema bancario europeo. Ciò si inserisce nel quadro di politiche monetarie ancora più espansive» sottolinea Luigi Speranzaeconomista dell’area euro di Bnp Paribas, che prevede entro fine anno un terzo quantitative easing da parte della Fed e un abbassamento del tasso di riferimento da parte della Bce di 50 punti base, che lo riporterebbe al livello dello scorso marzo, l’1%. Ma stavolta c’è stato bisogno dei dollari americani, cioè dell’aiuto della Fed, oltre che delle altre tre banche centrali.

Purtroppo questo clima di collaborazione fra la autorità monetarie sulla due sponde dell’Atlantico non ha trovato conferma a livello di governi. La partecipazione straordinaria del segretario al Tesoro Usa Tim Geithner alla riunione di venerdì 16 dell’Eurogruppo aveva generato aspettative di notevoli iniziative comuni tra i vari Stati contro la crisi. Ma sebbene il ministro delle Finanze polacco, Jacek Rostowski, abbia annunciato un compromesso sulla governance macroeconomica nell’Eurozona, l’attesa è andata largamente delusa, perché a Breslavia si è avuta un’autentica levata di scudi contro il responsabile del Tesoro statunitense, il quale ha dichiarato che i governi europei devono lavorare assieme per uscire dalla crisi del debito nell’Eurozona.

Per tutta risposta il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble, ha dichiarato che «noi europei abbiamo i nostri compiti da svolgere, gli americani pensino ai loro problemi», sottolineando che le finanze pubbliche Usa sono in condizioni peggiori rispetto all’Europa. Dopo un simile altolà gli americani saranno ancora collaborativi? Insomma il vento sarà anche cambiato, ma il pericolo non è passato.


Autore: Giuliano Castagneto e Guido Salerno Aletta
Fonte: Milano Finanza

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