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Le banche e la gestione dei rischi: l’economia necessita di finanziamenti per accompagnare gli investimenti produttivi

A distanza di quasi 10 anni dallo scoppio della crisi finanziaria del 2008, il sistema industriale, economico e sociale non ha ancora smaltito gli impatti di questo disastro senza precedenti. Nonostante l’epicentro della crisi abbia avuto origine nel sistema bancario, l’attenzione degli organi di vigilanza sulla stabilità del sistema finanziario era un tema sensibile anche negli anni precedenti alla crisi. Il comitato di Basilea aveva emanato nel 2004 regole finalizzate ad una maggiore stabilità del sistema (recepite a livello comunitario nel 2007), che richiedevano agli intermediari requisiti più alti di capitale a fronte dei rischi assunti. Ma l’impatto è comunque stato inevitabile una volta emerse le criticità degli strumenti altamente speculativi e della politica di erogazione del credito statunitense (fino al 2007 era solita finanziare anche famiglie senza redditi). Un gigantesco sentimento di sfiducia ha pervaso i mercati finanziari internazionali, minando anche pericolosamente la solidità dei debiti pubblici. Nel 2010 a  seguito del piano di salvataggio della Grecia, costato al fondo monetario internazionale 110 miliardi di euro, il rischio di default si è esteso anche ad altri Stati Europei, tra cui la stessa Italia.

Ben presto questa crisi di sfiducia si è trasferita anche sul sistema bancario che di fatto risulta il principale acquirente del debito pubblico. Gli istituti di credito sono stati investiti dal  fenomeno del “Credit Crunch”: una stretta creditizia dovuta all’innalzamento del costo del credito ed alla maggiore selettività nell’erogazione di finanziamenti, che ha avuto impatti devastanti sul PIL (-10%) e sulla produzione industriale (-25%).

La crisi, nata come finanziaria, estende i suoi effetti anche alla sfera economica e sociale: un gran numero di famiglie e di imprese incontrano problemi crescenti nel far fronte ai propri debiti. I prestiti non rimborsati, anche noti come crediti deteriorati o “non performing loans” (NPL) hanno raggiunto nel 2015 una incidenza del 22% sul totale dei prestiti erogati.

Alla fine del 2016 il volume totale di crediti deteriorati tocca quota 921 miliardi di euro. L’incremento dei crediti problematici costringe il sistema bancario all’accantonamento di risorse finanziarie a copertura di probabili perdite, oppure a svalutare i crediti con effetti economici negativi sul bilancio di esercizio.

Il peso delle svalutazioni dei crediti sui costi bancari è in molti casi così elevato da erodere ogni margine di utile. Dal 2011 ad oggi, le banche hanno registrato un totale di 62 miliardi di perdite (stima che Il Sole 24 Ore ha fatto su dati S&P Market Intelligence).

Dopo quasi dieci anni dallo scoppio della crisi, ancora oggi il sistema economico ne paga le conseguenze.

Rilevanti sono state le ultime dichiarazioni di Mario Draghi, presidente della Banca Centrale Europea, che ha recentemente emanato delle linee guida da intraprendere per il futuro: recuperare redditività, prestare maggiore attenzione ai rischi e smaltire i crediti deteriorati (a titolo esemplificativo, Intesa San Paolo sta già programmando di qui al 2019 una cessione di NPL  di 15 miliardi di euro).

Le riforme in un’ottica di sicurezza e stabilità per il futuro non possono non essere accolte positivamente da tutti: molti di noi avrebbero probabilmente preferito che le dichiarazioni di Draghi fossero volte a sostenere la crescita e lo sviluppo del sistema impresa, piuttosto che a ribadire concetti di prudenza.

In realtà la normativa comunitaria vuole promuovere i concetti di sostegno alle imprese, partendo proprio dalla sicurezza delle banche che non possono più essere concepite come soggetto a rischio in situazioni economiche avverse, ma come un baluardo a presidio del mondo economico, che poi nel caso italiano è “bancocentrico”.

Ma allo stesso tempo le banche si trovano ad essere soggette a questa normativa e a queste ulteriori linee guida restrittive in un momento di maggior liquidità concessa dalla Banca centrale europea: le imprese per ottenere sostegno dal sistema finanziario, non possono oggi prescindere da requisiti di meritevolezza.

Non si possono infatti attribuire tutte le colpe al sistema finanziario: i cambiamenti necessitano di un’ottica diversa da entrambe le parti. Le imprese e le banche devono adattarsi a uno scenario economico in continua evoluzione. Serve buona volontà  nell’andarsi incontro, aver più fiducia nei nostri istituti di credito, considerando anche il fatto che hanno retto bene alla crisi (grazie anche alla Banca d’Italia che è stata molto più severa rispetto alle “colleghe” europee) e non si sono lasciate trascinare nel vortice delle speculazioni sfrenate.

Proprio da questi punti cardine bisogna ripartire: considerazione della nostra economia, incentrata sulla piccola media impresa, necessità del credito per ripartire e buona volontà da ambo le parti. Come in qualsiasi tensione che si può vivere in un rapporto a due, la migliore soluzione sarebbe il dialogo, il sapersi ascoltare, l’andarsi incontro vicendevolmente. E se non ci si riesce, farsi aiutare da qualcuno. Molto spesso, infatti, gli imprenditori si rivolgono autonomamente alle banche sentendosi all’altezza di riuscire a trasmettere le giuste informazioni riguardanti le proprie aziende, che potrebbero avere i requisiti adatti, essere solide, solvibili e con ottime potenzialità future. Ma se queste informazioni non vengono trasmesse nella maniera più appropriata, se non si è in grado di descrivere l’azienda da un punto di vista economico e in prospettiva futura, allora il rapporto rischia di interrompersi ancor prima di iniziare.

È l’evoluzione stessa dello scenario economico a richiedere un cambiamento di prospettiva. Per le imprese sarà conveniente valutare i crediti in bilancio per gestirli meglio e per potersi presentare potenzialmente a nuovi investitori. Anche se siamo il Paese in Europa con la più alta percentuale di prestiti bancari tra tutte le altre forme di finanziamento, si stanno facendo avanti nuove figure alternative alle banche come i Business angels, i fondi d’investimento, il crowdinvesting, e non solo per le aziende di nuova costituzione, come le start up.

Le banche dovranno abituarsi all’idea di avere nuovi competitor, specializzati non solo nel proprio settore d’appartenenza ma anche nell’ambito retail, dove bastano uno smartphone e pochi minuti per aprire un conto corrente online. Se vogliono rimanere competitive dovranno in qualche modo abbandonare la generalizzazione, focalizzarsi in determinati settori, magari abbandonarne altri e soprattutto fidelizzare i propri clienti, perché il rischio di perderli sta aumentando.

In questo scenario complesso, la consulenza serve proprio a questo: a migliorare il rapporto banca – impresa, a mettere in relazione due mondi separati ma che in Italia vivono in simbiosi, e potrebbe rivelarsi come la chiave di successo per il superamento definitivo di questa situazione problematica che dobbiamo lasciarci alle spalle.  

 


Autore: Gianfranco Antognoli, Manfredi Caldaronello, Stefano Vannucci
Fonte:

Credit Village

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