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Ecco tutti gli scogli delle nozze tra la Popolare di Vicenza e Veneto Banca

Quel matrimonio s’ha da fare. Così pare, ma le nozze tra le due malandate Popolari venete non saranno certo una passeggiata. Del resto mettere insieme due banche zoppicanti, che tra l’altro presidiano lo stesso territorio con le innumerevoli sovrapposizioni del caso, non fa necessariamente una nuova banca sana. Anche perchè i malanni che affliggono la Popolare di Vicenza e Veneto Banca sono gli stessi: due animali bancari con le stesse criticità che rischiano di sommarsi anzichè elidersi. Tutte e due hanno visto contrarsi pesantemente i ricavi nell’ordine del 30% nei 12 mesi tra il giugno 2015 e il giugno 2016 (ultimo bilancio approvato). Entrambe hanno tuttora crediti malati netti pari a un quinto dell’intero portafoglio impieghi. E ancora tutte e due hanno costi troppo elevati per rendere sostenibile il business.

Le analogie sono talmente evidenti da renderle speculari. Un doppione. Più o meno gli stessi dipendenti (5.400 Vicenza; 6.200 Veneto Banca) e gli stessi sportelli (511 l’una; 481 l’altra). E più o meno lo stesso volume di crediti: 23 miliardi per la ex banca di Zonin; 21 miliardi per l’ex istituto di Consoli. La crisi è manifesta per entrambe sul fronte della caduta dei ricavi. Sia Vicenza che Veneto hanno lasciato sul terreno nei 12 mesi tra giugno del 2015 e l’estate scorsa il 30% dei loro ricavi. Business in forte decelerazione quindi, con cadute nella raccolta e costi fuori linea rispetto alla media del sistema. Il cost/income della Popolare vicentina è all’83%, peggio fa Montebelluna con un rapporto costi/ricavi al 110%. Ovviamente l’utile ancora non si è visto. Vicenza ha perso nel primo semestre del 2016 795 milioni, Montebelluna ha chiuso l’ultima semestrale con un passivo di 260 milioni.

Il patrimonio delle due – dopo la ricapitalizzazione per evitare il crac fatta dal Fondo Atlante che ha sborsato 2,5 miliardi – a giugno rispettava i requisiti di Vigilanza. Si dubita che possa farlo anche con i conti di fine anno dato che nuove svalutazioni delle sofferenze saranno inevitabili. E del resto Atlante pochi giorni fa ha messo a disposizione altri 938 milioni di euro per le due banche in conto futuro aumento di capitale. Un aumento che non è mai stato messo in discussione. Già a novembre scorso Alessandro Penati, il presidente di Quaestio aveva messo le mani avanti. Con i primi 2,5 miliardi si sono tappati i buchi, disse. Poi si dovrà necessariamente metter mano alla cessione di buona parte delle sofferenze. E quel processo di pulizia comporterà per forza nuove perdite che andranno a erodere il capitale. Per ora il conto salvezza sopportato dalla Cdp, dalle banche e dalle Fondazioni e dagli assicuratori che hanno costiuito il Fondo Atlante è di 3,5 miliardi.

Improbabile che ci si fermi qui. I nodi che andranno affrontati nel percorso verso le nozze sono almeno tre. Occorrerà agire sui costi: da quelli fissi (sportelli) al personale e tutti si attendono un piano lacrime e sangue. Ma senza ripristinare i ricavi perduti nel corso della pesante crisi degli ultimi anni, il solo taglio dei costi rischia di essere velleitario. E su questo fronte la partita sarà più complicata dato il clima di bassi tassi che comprime i margini di tutte le banche. Ma lo scoglio più duro sarà quello della pulizia delle sofferenze; del loro prezzo di cessione e della disponibilità dei compratori. L’impresa non sarà facile. I crediti dubbi lordi sommati delle due sono 17 miliardi e quelli netti sono a bilancio a circa 10 miliardi. Una mole non indifferente su cui i nuovi vertici avranno il loro bel daffare. Un’operazione però ineludibile che non potrà essere rimandata tanto a lungo. Con quella zavorra la nuova banca non potrà certo riprendere a navigare.


Autore: Fabio Pavesi
Fonte:

Il Sole 24 Ore

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