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In Italia il peso degli Npl Germania, «mina» derivati

Un’incidenza dei crediti deteriorati quattro volte superiore alla media europea, a cui fa da contraltare un’esposizione decisamente inferiore nei confronti di altri fattori di rischio, a partire dalla «mina derivati» che continua a tenere banco in altri paesi del Vecchio Continente, Germania in primis. È un quadro in chiaroscuro quello tracciato per il sistema bancario italiano, alla vigilia della pubblicazione dei risultati degli stress test Eba, dall’edizione 2016 dello studio «Dati cumulativi delle principali banche internazionali» condotto da R&S Mediobanca sui primi 66 gruppi mondiali.

Se da una parte per gli istituti di casa nostra (l’analisi prende in considerazione i dati delle due big UniCredit e Intesa Sanpaolo) la percentuale di crediti dubbi netti sui crediti totali nel 2015 era infatti pari all’8,2% contro il 2% medio in Europa (1% in Germania, 1,2% in Spagna, 1,5% nel Regno Unito e 1,7% in Francia), la situazione appare sensibilmente migliore su altri fronti. È, appunto, il caso dei derivati, che rappresentano il 9,3% degli attivi totali delle banche italiane: la media Ue è del 18,2% e l’incidenza raggiunge il 29,7% in Germania. R&S ha calcolato inoltre il rischio di credito complessivo dei derivati iscritti a bilancio dalle singole banche come percentuale del patrimonio netto: se per le italiane si va dal 9,7% di Intesa al 21,4% di UniCredit, la media europea raggiunge il 32,6%, gonfiata dal 73,5% di Societé Generale, dal 63,5% del Credit Suisse e dal 62,1% di Deutsche Bank.

Nei bilanci delle banche italiane, inoltre, hanno un peso relativamente contenuto i crediti “forborne” (quelli che hanno ottenuto modifiche contrattuali rispetto alle condizioni originali), pari al 9,7% dei crediti dubbi lordi contro il 26% medio in Europa (40,1% in Germania, 27,5% nel Regno Unito, 84,8% in Spagna). Gli esperti di R&S hanno valutato che se si deteriorasse il 20% di queste voci le perdite su crediti delle banche italiane aumenterebbero del 22%, contro un +32,5% medio in Europa e picchi da +54,9% in Spagna e +42,3% in Germania. Situazione analoga per i cosiddetti attivi di “Livello III” (asset illiquidi, privi di mercato e valutati in modo discrezionale dai singoli istituti), pari al 7,3% del patrimonio netto di UniCredit e al 9,7% per Intesa, contro il 63,8% del Credit Suisse, il 63,5% di Barclays e il 54,8% di Deutsche Bank. Per queste ultime una svalutazione del 10% di questi asset costerebbe tra gli 80 e i 110 punti base di Cet1, contro 10-20 punti per le italiane. Passando all’analisi dei conti economici, il rapporto racconta di un settore che «arranca ancora» a livello globale, anche nel primo trimestre 2016: i ricavi degli istituti sono scesi del 2,2% annuo negli Stati Uniti e del 9,8% in Europa. Flessioni che salgono rispettivamente all’11,6% e al 27% per quanto riguarda il risultato netto.

A pesare sulla redditività delle banche del Vecchio Continente (oltre a un cost/income pari al 66,7% contro il 62,3% degli Usa) è l’incidenza delle voci straordinarie, che nel solo 2015 sono state una zavorra da 36,8 miliardi. Salta all’occhio in particolare la voce «Rimborsi, multe e controversie», che ha avuto un impatto negativo da 26,4 miliardi, superiore ai 22,3 miliardi delle svalutazioni (12,1 miliardi di avviamenti e 10,2 miliardi di crediti e altre voci). In Europa, del resto, la sola necessità di adeguarsi alle normative si è tradotta in un conto da 27 miliardi nel 2015: cifra pari al 52% degli utili e al 14% del costo del personale. Anche per le banche Usa, tuttavia, il 2015 non è stato esente da spine, almeno sul fronte del prestigio. Il rapporto R&S registra infatti il sorpasso subito dai big Usa ad opera dei colossi cinesi nel ranking mondiale per totale attivo. In testa alla classifica c’è la Industrial and Commercial Bank of China (Icbc), che ha superato JpMorgan Chase, scivolata al secondo posto. Confermato il gradino più basso del podio per Bank of America, mentre chiudono la top 5 altre due banche cinesi: China Construction Bank e Agricultural Bank of China. Complessivamente quattro delle prime dieci posizioni sono occupate da istituti della Repubblica Popolare, mentre le banche Usa si fermano a quota tre. Due le europee: Hsbc è settima, seguita da Bnp Paribas, nona. Per trovare un’italiana si deve scorrere la classifica fino al 24esimo posto, dove si incontra UniCredit (era 26esima nel 2014), mentre Intesa è 35esima (era 30esima l’anno precedente).


Autore: Paolo Paronetto
Fonte:

Il Sole 24 Ore

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