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Inchiesta due Italie

 

Recessione, disoccupazione, bassi salari: peggiora la situazione economica del Paese. Ma per una piccola percentuale di cittadini la crisi è l’occasione per accrescere il patrimonio. Nell’indifferenza del governo. Mentre i tagli di spesa rischiano di aggravare le diseguaglianze.

La Ferrari FF è stata presentata alla stampa qualche giorno fa. Costa 250 mila euro, quanto un appartamento, ed è la prima supercar di Maranello pensata per le famiglie: nel bolide ci sono quattro posti confortevoli e un bagagliaio enorme. Luca Cordero di Montezemolo ha detto che entro il 2011 si ipotizzava di venderne 800. Ce la faranno con la crisi? “Sono state vendute tutte a gennaio, prima ancora che la macchina finisse sotto i flash dei fotografi al salone di Ginevra”. Sul mercato italiano la Ferrari è una delle pochissime case che nel 2010 ha piazzato più macchine rispetto all’anno precedente. Insieme alla Dacia, la casa low-cost sottomarca della Renault che vende modelli base a 7.500 euro. Negli ultimi due anni le loro auto sono andate a ruba: più 150 per cento, da quando è iniziata la recessione.

Le macchine che non si vendono più sono invece quelle “medie“, come la Fiat Bravo, quelle dei cosiddetti segmenti C e D. Secondo i dati dell’Anfia, l’associazione dei costruttori di automobili, il mercato si è polarizzato. Così chi nel 2001 aveva una berlinetta e ha fatto i soldi è passato a un fuoristrada o a un Suv, chi si è impoverito ha fatto un salto (all’indietro) di status e scorrazza con un’utilitaria. Il ceto medio, prendendo come metafora il parco macchine del Paese, negli ultimi dieci anni si è assottigliato.

Ma anche allo stadio le classi sociali sembrano solo due: i poveri affollano le curve, i ricchi e i potenti siedono in tribuna vip. Da Verona a Napoli i distinti, nell’immaginario collettivo rifugio domenicale di colletti bianchi e famiglie di operai, sono quasi semideserti. Il presidente della Triestina, ora in serie B, vista la penuria di spettatori sulle gradinate centrali del “Nereo Rocco” ha deciso addirittura di sostituirli con le sagome di tifosi dipinti. I piccolo borghesi in carne e ossa che le abitavano si sono sparpagliati tra i settori popolari e le poltroncine riservate, ma la massa – come ha commentato sulla “Stampa” Massimo Gramellini – è finita davanti alla comoda, ed economica, tv.

CHI SALE E CHI SCENDE

Che cosa sta succedendo in Italia? “La crisi economica sta aggravando uno schiacciamento delle classi medie, quelle composte soprattutto da impiegati, artigiani, piccoli commercianti e tute blu. A vantaggio della base e del vertice della piramide sociale”, ragiona Giacomo Vaciago, economista e professore all’Università Cattolica di Milano, “negli ultimi anni in molti hanno perso posizioni, ma molti altri ne hanno guadagnate”.

In sintesi: ricchi sempre più ricchi, poveri (o impoveriti) sempre più poveri. Un fenomeno che gli studiosi più attenti avevano già individuato all’inizio degli anni Duemila, certificato poi dall’Ocse in uno studio di due anni fa, che puntava il dito sugli effetti devastanti della crisi economica dei primi anni Novanta. Il gap, scrivevano gli esperti, “è stato colmato attraverso l’aumento delle tasse sulle famiglie e il boom della spesa per prestazioni sociali”, in primis scuola e sanità.

Ora la nuova stagnazione rischia di far precipitare la situazione: l’Italia della crescita zero e dei governi Berlusconi non si comporta come una livella, ma mostra i difetti di una modernizzazione zoppa che può farci avvitare in una dinamica tipica da Terzo mondo, dove la distanza tra chi ha di più e chi ha di meno diventa siderale. Dei trenta Paesi che aderiscono all’Ocse l’Italia è gia oggi il sesto nella classifica dei più diseguali dell’Occidente, e le ultime elaborazioni del Conference Board del Canada ci mettono addirittura alla pari degli Stati Uniti.

Anche i consumi si sono radicalizzati, e le tabelle dell’Istat insieme a qualche giorno passato a fare shopping tra Roma, Napoli e Torino aiutano a fotografare la situazione. L’istituto di statistica segnala che nel 2010 gli italiani hanno speso sempre meno per mangiare. Ma se supermarket e salumieri di quartiere fanno fatica, gli hard-discount sono affollatissimi. Ci va chi deve fare attenzione a chiudere in pari il budget mensile, e i registratori di cassa (soprattutto il sabato e la domenica) sono in piena attività. Ma c’è sempre la fila anche davanti ai delicatessen più esclusivi che propongono un chilo di pane a cinque euro nelle strade più chic. Qui va a far la spesa quel 10 per cento degli italiani che possiede quasi la metà della ricchezza totale della nazione.

Anche il mercato immobiliare è caratterizzato da una forbice simile. “Per le case più prestigiose, in location di qualità come Capri, Cortina o i centri storici di Roma, Firenze, Milano, Napoli, Torino e Venezia, non rileviamo nessun problema. Gli acquirenti sono tanti e l’offerta limitata, difatti i prezzi restano esorbitanti”, racconta Daniela Percoco, esperta di Nomisma “Anche i bilocali vanno a ruba: soprattutto quelli nelle zone periferiche, che negli ultimi tre anni hanno subito un deprezzamento consistente. Coloro che hanno un po’ di liquidità da investire puntano su abitazioni piccole, anche a costo di rinunciare a una stanza”. Anche i dati di Tecnocasa confermano la tendenza: i loft di lusso sono facili da vendere, gli appartamentini intorno ai 200 mila pure. Sono i tagli medi da 300-400 mila euro a rimanere bloccati. “I mutui vengono erogati con molte difficoltà, e il risparmio è congelato perché usato per le necessità di tutti i giorni: quella metratura non tira più”, dice la studiosa. “C’è invece una grande domanda inevasa di case sociali. Giovani coppie, immigrati che lavorano, studenti o divorziati, tutte categorie che fino a qualche anno fa potevano permettersi un trilocale economico. Oggi è fantascienza”.

UN PROBLEMA STRUTTURALE

I dati sull’impoverimento e sulla vulnerabilità sociale dilagante vengono snocciolati ormai a ritmo quotidiano. Solo dall’inizio di marzo si è avuta notizia del boom di prestiti e del calo dei conti correnti (Bankitalia), della crisi delle immatricolazioni delle università (Almalaurea ha rivelato che i laureati sono sempre meno e sempre meno pagati), dello stallo del commercio e della nuova fiammata dell’inflazione (l’Istat mette sul banco degli imputati i rincari di benzina e alimentari).

L’Italia, ripetono gli economisti, ha un problema strutturale di mancata crescita, e un combinato disposto di tasse alte e stipendi tra i più bassi in Europa. Ma qualcuno riesce a cavarsela meglio di altri. “A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza, e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”, chiosa la sociologa Chiara Saraceno parafrasando l’evangelista Matteo in un saggio (“I nuovi poveri”, Codice Edizioni) che uscirà a fine mese, scritto con il direttore dellaCaritas di Torino Pierluigi Dovis.

Perché se nell’ultima rilevazione Ocse i lavoratori tricolori sono scesi al 23esimo posto sui 30 disponibili nella graduatoria delle buste paga (siamo battuti perfino dai greci che, nonostante la crisi biblica che li ha investiti, guadagnano 3.500 dollari l’anno – la ricerca usa la valuta americana – più di noi), nell’indagine sulla ricchezza delle famiglie pubblicato dalla Banca d’Italia si scopre che un quarto dei nuclei familiari vive con 12 mila euro l’anno, mentre 600 mila famiglie fortunate possono spendere quasi 11 mila euro. Al mese.

Chi si sta arricchendo, e chi sta scendendo i gradini della scala sociale? Di sicuro sono cresciute le povertà “gravi”, che interessano quelli che non hanno nemmeno un tetto sulla testa. Ma pure categorie un tempo stabili fanno come i gamberi e camminano all’indietro. Nel calderone c’è di tutto, ma il minimo comune denominatore è la debolezza del fattore lavoro. Come ricorda Marco Panara ne “La malattia dell’Occidente“, sono vent’anni che nella formazione del nostro prodotto interno lordo sempre più soldi vanno a vantaggio del capitale. Operai, insegnanti e impiegati dipendenti soffrono (sono tornati ad avere lo stesso reddito dell’anno di grazia 1993), ma almeno hanno goduto di sussidi e cassa integrazione a volontà. I precari che non hanno visto riconfermato il loro contratto a tempo e le piccole partite Iva che navigano nel mare periglioso del mercato libero senza nessuna rete di protezione, infatti, se la vedono ancora peggio: migliaia e migliaia di loro sono sul lastrico, e non pochi sono finiti nei centri d’assistenza cattolica sparsi per il territorio. Cosa chiedono? “Aiuti per sanare la morosità di un’utenza domestica, o per le rate d’affitto per l’abitazione”, scrive Dovis. “È la fascia dei quasi poveri, li incontriamo vestiti in maniera usuale, con modi molto più spaesati, come di qualcuno che si trovi per la prima volta in un ambiente non suo”. Tra di loro ci sono anche decine di “piccolissimi imprenditori alle prese con commesse fermate, pagamenti dilazionati all’infinito, fallimenti… Chi mi aveva preceduto come direttore non li aveva mai incontrati: in dieci anni il mondo è davvero cambiato”.

Chi si è impoverito non ha comunque sviluppato un senso di appartenenza a una medesima classe, e non è un caso che i conflitti sociali siano nonostante tutto assai contenuti. L’autunno è stato “caldo” per un po’ (protagonisti assoluti i metalmeccanici della Fiat e gli studenti anti-Gelmini), ma le proteste in piazza sono scemate secondo pronostico: a Natale tutti sono tornati a casa loro. Secondo Antonio Schizzerotto, ordinario alla facoltà di sociologia a Trento, “esiste un senso generalizzato di impoverimento, ma le differenze tra i ceti colpiti dalla crisi sono troppo evidenti per creare un fronte compatto”. C’è invece una consapevolezza crescente che le vittime predestinate del nuovo assetto alla brasiliana della nostra società siano i più giovani. “È così: ormai è chiaro che adulti e anziani occupano le posizioni superiori e controllano quasi per intero la ricchezza, mentre le nuove generazioni sono costrette a restare alla base della piramide”.

Nel panorama socio-economico disegnato dalla crisi gli under 30 sembrano una categoria a parte, perdenti nati che non possono nemmeno entrare in campo. La panchina è il loro presente e sembra essere il loro (immediato) futuro. La disoccupazione giovanile ha battuto ogni record (oltre il 29 per cento secondo l’ultima rilevazione), e l’incidenza della povertà tra i minori rispetto a quella della popolazione generale è ai massimi livelli. Nella Ue solo Romania e Bulgaria fanno peggio. Le contromisure degli esecutivi di centrodestra – che tranne la parentesi in cui Romano Prodi è stato a Palazzo Chigi governano indisturbati da un decennio – non sembrano efficaci: l’indennità di disoccupazione è stata osteggiata sia dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti sia da quello del Lavoro Maurizio Sacconi, e la social card è stata un fallimento. “Non ricordo nessuna seria misura per il sostegno al reddito”, aggiunge Schizzerotto: “Di fatto, è l’agenzia famiglia a funzionare come sistema di welfare per i figli e per i soggetti più deboli. Ma di questo passo tra pochi anni gli anziani non potranno più sopperire alle manchevolezze dei governanti. E allora saranno guai seri”.

IL GOVERNO AMA I RICCHI

Ferrari per famiglie in garage, elicotteri privati sul tetto, chef personale in cucina, tessera del country club nel taschino più prenotazione di un albergo a 5 stelle (sono sempre pieni) per il weekend che verrà. Se la massa deraglia verso il baratro del declino, in tanti continuano a brindare a champagne nei quartieri alti.

I liberi professionisti e gli imprenditori negli ultimi 15 anni hanno incrementato il loro reddito del 25 per cento. Una performance pazzesca se confrontata con quella dei lavoratori dipendenti, certificata da Bankitalia che tiene conto anche del calo osservato nel biennio 2006-2008. Non solo: è vero che i patrimoni finanziari hanno preso legnate dopo la tempesta scatenata dal crac della Lehman Brothers, ma gli investitori hanno diversificato e recuperato in fretta le posizioni perdute.

Tanto che nel 2009 le 600 mila famiglie super-ricche hanno accresciuto il loro patrimonio totale rispetto all’anno precedente (dati Prometeia). Qualche esempio famoso? La famiglia Rocca che controlla Tenaris, Leonardo Del Vecchio di Luxottica e i Benetton hanno visto volare le loro azioni sia nel 2009 sia nel 2010 (sono ai primi tre posti nella classifica dei Paperoni d’Italia), mentre in 12 mesi la famiglia Agnelli e i fratelli Della Valle hanno quasi raddoppiato il valore delle loro partecipazioni.

A parte i miliardari, sono in tanti ad avere accresciuto i loro conti in banca. Innanzitutto le professioni non liberalizzate, quelle che sfruttano i regimi di semi o totale monopolio: notai, farmacisti, gli imprenditori che lavorano nel settore delle concessionarie di Stato e delle grandi utilities dell’energia. Guadagni a cinque e sei cifre anche per chi si è lanciato nel business della sanità privata, per i manager (vedi Sergio Marchionne) che prendono anche mille volte di più rispetto alla busta paga di un dipendente medio dell’azienda che amministrano, e per quei pochi coraggiosi che hanno scommesso sull’high-tech.

Se la passano bene anche coloro che lavorano nelle consulenze e nel campo delle intermediazioni d’affari, gli avvocati e commercialisti dei grandi studi, i big della Grande distribuzione, produttori dei marchi d’alta gamma. “Ma hanno fatto un sacco di soldi pure gli italiani che lavorano all’estero, dal momento che il mondo non è mai cresciuto tanto come nell’ultimo decennio”, spiega ancora Vaciago, “la fortuna ha sorriso a quelli che hanno dimestichezza con l’inglese e prendono tanti aerei, quelli che hanno osato comprato terre sul Mar Nero a basso costo e ora vendono granoturco in mezza Europa, gli artigiani che trattano scarpe e pezze con gli indiani o automobili con i cinesi.

Pensi anche ai professori universitari. Da noi prendono una miseria, ma alla London School of Economics oggi insegnano otto nostri connazionali: non era mai successo”. Qualche studioso dice che non c’è nulla di nuovo, e che il nostro indice Gini, quello che misura le diseguaglianze, è fermo, immobile da decenni. Fatto sta che nel 2008 l’1 per cento degli italiani controlla il 13 per cento della ricchezza.

Il governo i dati dei maggiori istituti di ricerca li conosce bene, ma finora Berlusconi e Tremonti hanno solo tamponato le falle: per favorire una redistribuzione più equa delle risorse ci vorrebbe altro. La leva classica è quella del fisco. Per ora l’aumento dell’imposizione sulle rendite finanziarie non è nemmeno oggetto di dibattito, mentre l’abolizione dell’Ici – questa la critica degli economisti – ha avvantaggiato chi una casa l’aveva già.

Le liberalizzazioni sono ferme al palo, gli assegni familiari idem, mentre gli affitti (con il Fondo sociale cancellato con l’ultima Finanziaria) e le spese per l’energia sono in crescita costante. Sono voci che mangiano la metà del reddito delle fasce meno benestanti. Anche la lotta all’evasione non è mai decollata: la pressione fiscale su dipendenti e imprese sarebbe dovuta diminuire grazie ai proventi della battaglia contro i furbi, ma finora il bottino è troppo magro e non permette mosse alla Robin Hood. E se in Italia i servizi garantiti da scuole e ospedali pubblici hanno tradizionalmente ridotto le disuguaglianze di reddito, negli ultimi due anni i tagli rischiano di aumentare il gap. Ma il pericolo è che la società italiana, senza una sterzata, si divarichi sempre di più e segua il modello Trenitalia. Che da un po’ di tempo ha cancellato la seconda classe dalle sue offerte, piazzando i ricchi sull’Alta Velocità e la massa dei poveri sugli Intercity e sui Regionali.

Effetto domino

di Orazio Carabini

Produzione, prezzi, welfare, fisco. I fattori che possono modificare la distribuzione del reddito, e quindi incidere sulle diseguaglianze, sono tanti. E una diversa combinazione può produrre effetti inattesi. La prima variabile da tener d’occhio è la disoccupazione che aumenta soprattutto durante le recessioni, ovvero quando l’attività produttiva si riduce o ristagna. Se il numero dei disoccupati aumenta è probabile che aumenti anche la diseguaglianza. A meno che gli strumenti del welfare (sussidi, cassa integrazione, incentivi fiscali) non garantiscano che il reddito di chi si ritrova senza lavoro rimanga lo stesso. La diseguaglianza cresce anche quando, a causa della recessione, si diffondono forme di riduzione dell’orario di lavoro associate a riduzioni della retribuzione (contratti di solidarietà, contratti temporanei): solo chi sta più in basso nella scala dei redditi ne è colpito. “Il rischio aumenta”, aggiunge Maurizio Franzini, docente di politica economica alla Sapienza di Roma, “quanto più numerose sono le persone di una stessa famiglia che si trovano nella stessa condizione professionale”. Se marito e moglie sono entrambi dipendenti della stessa azienda che chiude il reddito che viene a mancare è maggiore. Sulla diseguaglianza incide anche la parte alta della scala: se i compensi dei supermanager non diminuiscono e se i redditi da capitale (rendimenti della Borsa e delle obbligazioni) non sono penalizzati dall’andamento negativo dei listini o dei tassi d’interesse, la differenza rispetto ai redditi bassi si amplia. “Dopo la pausa del 2008-2009”, osserva Franzini, “la remunerazione dei supermanager ha ripreso a correre e se si dà un’occhiata alla lista degli italiani più ricchi del mensile Forbes nel 2010 il loro patrimonio è cresciuto”. E poi c’è l’inflazione. Il petrolio che sale, per esempio, fa male ai poveri. Così come l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, soprattutto gli alimentari. Il cibo e l’energia incidono infatti di più sulla spesa delle famiglie a basso reddito. E spesso quei consumi non si possono comprimere.


Autore: Emiliano Fittipaldi
Fonte: L’Espresso

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