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Nel credito non c’è più l’isola felice

Si tratta di prese di posizione che sicuramente segneranno nei prossimi mesi l’azione dell’organo di vigilanza e l’atteggiamento dei soggetti controllati, rischiando di far salire la tensione fra l’uno e gli altri.

Il punto fondamentale è che le banche italiane hanno retto meglio delle altre alla crisi (anzi, come ha detto il presidente del Banco Popolare, Fratta Pasini, hanno contribuito a mitigarla) ma ormai nel nuovo scenario macroeconomico quel punto di forza si va trasformando in debolezza. È stato ed è un bene che le banche italiane siano dedite fondamentalmente all’attività retail, dunque al servizio delle famiglie e delle imprese, ma questo significa anche che i profitti vengono soprattutto dal margine di interesse e, in uno scenario di tassi così bassi come quelli attuali, l’impatto è terribile.

In soli due anni ha detto Draghi questo indicatore di redditività è più che dimezzato, passando da 2,0 a 0,9. Come se non bastasse, la maggior rischiosità, ha fatto aumentare decisamente le perdite e gli accantonamenti su crediti (questi comunque rimangono inferiori alla media di lungo periodo, il che significa che non c’è certo eccesso di rigore nella redazione dei bilanci). L’effetto netto è che la redditività del capitale dell’ultimo anno si attesta ad un magro 4%. Ciliegina sulla torta: gli utili dovranno comunque essere destinati soprattutto a riserva, cioè ad irrobustire il capitale, piuttosto che a remunerare gli azionisti sotto forma di dividendi.

Questo quadro si sovrappone all’altro cui Draghi ha dedicato gran parte del suo intervento, cioè la nuova regolamentazione prudenziale, che è una sorta di missile a tre stadi. Il primo, dai contorni ormai abbastanza definiti, è quello dei nuovi requisiti di capitale, cioè Basilea-3.

Il secondo, che riguarda solo qualche grande gruppo internazionale è quello dei requisiti più stringenti che dovranno essere applicati alle banche definite di importanza sistemica a causa della loro enorme dimensione, della loro complessità, delle loro tentacolari connessioni con altri intermediari. Si tratta delle banche come Lehman Brothers che si dedicano all’investment banking in tutte le sue forme e dunque che adottano modelli di business ben diversi da quelli delle banche italiane.

La crisi ha dimostrato che accrescere dimensioni e complessità può aumentare la fragilità e dunque è giusto che queste banche, lungi dal godere di uno sconto in termini di requisiti patrimoniali, siano assoggettate ad oneri più stringenti. Ma l’attuazione concreta di questo principio è ancora lontana: entro la fine di quest’anno il Ssb (Financial Stability Board, che Mario Draghi presiede) formulerà una proposta e da allora la parola passerà ai legislatori nazionali, che – c’è da scommettere – saranno sottoposti a pressioni di ogni sorta da parte delle rispettive lobby. I

l terzo stadio è quello dell’assoggettamento a regolamentazione prudenziale del cosiddetto “sistema bancario ombra“, cioè di tutti quegli intermediari che hanno potuto (ancora una volta, non in Italia, ma soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito) svolgere funzioni di tipo bancario senza essere regolamentati come banche e dunque senza dover rispettare vincoli di capitale e di liquidità. Anche qui il Fsb è in procinto di formulare precise proposte, che dovranno poi essere discusse e attuate, si spera senza sconti, dai singoli paesi. C’è quindi una netta asimmetria fra i tre stadi, perché solo il primo, quello già definito e che incide da subito, interviene su problemi che in un modo o nell’altro riguardano anche il nostro sistema bancario. Gli altri due ci sono invece in larga misura estranei. E per fortuna, va aggiunto. Ma l'”equità” del quadro regolatorio che emergerà dopo la crisi dipende anche, se non soprattutto, da quando, come e con che grado di severità verranno assoggettati a regole sia le grandi banche di rilievo sistemico, sia il cosiddetto sistema bancario ombra.

Nel frattempo, non bisogna stupirsi se chi deve fare i conti con la sola prima parte della riforma, cioè con Basilea-3, sia fortemente preoccupato. Draghi ha fatto alcune aperture (soprattutto in un paio di passaggi a braccio) sulla possibilità di rendere meno stringenti alcuni aspetti dei requisiti di liquidità, su cui è ancora in corso l’analisi d’impatto. Ma su un punto non ha fatto sconti: la pressione sui profitti non si deve scaricare sui clienti, in termini di maggiori tassi alle imprese e/o minori tassi ai depositanti o ai sottoscrittori di obbligazioni. E, meno male va aggiunto perché queste due ultime categorie hanno dato già abbastanza alla causa bancaria nazionale. Rimane una sola via, il taglio drastico dei costi operativi, da realizzare “semplificando le strutture produttive, cedendo ulteriori attività non strategiche, adeguando le politiche di remunerazione ai vari livelli”.

Dunque, tagli generalizzati di partecipazioni, sportelli, dipendenti e livelli medi salariali. Uno scenario del tutto nuovo per il nostro sistema bancario e certo irto di problemi e tensioni. Sul film dell’isola felice scorrono i titoli di coda.


Autore: Marco Onado
Fonte: Il Sole-24 Ore

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