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L’economia senza credito

Le banche sono in trappola. Quello che Basilea III chiede loro è più capitale per fare le stesse cose. Richiesta sacrosanta visto quello che è accaduto negli anni scorsi, ma che ha una non trascurabile conseguenza.

Dovendo impiegare più capitale per unità di prodotto, il costo (in questo caso la componente rappresentata da quello del capitale) aumenterà, il che comprimerà i margini e renderà più difficile remunerare il maggior capitale richiesto. E’ un cane che si morde la coda: ci vuole più capitale ma non avendo i margini per remunerarlo sarà più difficile trovarlo. Il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi si è speso nelle scorse settimane per convincere le banche italiane a distribuire meno dividendi e tenere in cassa la maggiore quantità possibile di utili.

E’ un modo per rafforzare il patrimonio ed è una strada certamente da percorrere, ma che potrebbe non bastare. Gli utili non sono eccezionali, e anche accantonandoli tutti per qualche anno forse alcune banche non tutte potrebbero riuscire a soddisfare le richieste di Basilea III. Non basterebbe però, anche alle più redditizie, a mettere in cascina il fieno necessario per allargare l’attività. Il rischio che si profila quindi è, nel migliore dei casi, una stagnazione del settore e, nel peggiore, una diminuzione dell’offerta di credito.

Ma senza credito, si sa, l’economia non cammina, e senza un aumento del credito disponibile certamente non cresce. Il problema microeconomico dell’adeguamento del capitale delle banche diventa così un problema macroeconomico di crescita dell’economia. Le strade per uscire da questa trappola sono in realtà poche e assai strette. La prima è una revisione radicale della struttura dei ricavi, ovvero un aumento significativo del costo del credito alle imprese e alle famiglie.

L’effetto depressivo sull’economia di una svolta del genere è evidente, ma non è detto che, anche volendo, questa sia una strada che sia possibile percorrere o che, percorrendola, darebbe i frutti sperati. La crescita è assai bassa, la concorrenza morde, alzare i tassi per aumentare i margini non sarebbe comunque un’operazione facile. Anche perché, prima che i clienti, a dover fare i conti con un aumento del costo della raccolta saranno proprio le banche. Quest’anno e il prossimo andranno a scadenza centinaia di miliardi di obbligazioni bancarie, che gli istituti dovranno coprire con nuove emissioni, sulle quali secondo le previsioni pagheranno cedole significativamente superiori a quelle attuali.

Peserà sulla nuova raccolta il peso del ‘rischio sovrano’ ovvero quella tassa che i mercati impongono agli emittenti dei paesi che a ragione o a torto sono considerati in qualche modo a rischio. L’Italia non è ai primi posti, e tuttavia in quella classifica c’è e questo vuol dire che gli italiani che raccolgono denaro sui mercati lo devono pagare di più. Per le banche, soprattutto quelle medie, aumenteranno quindi i costi di raccolta, e non è scontato che riescano a trasferirli poi alla clientela, con una possibile compressione ulteriore dei margini. Da questo punto di vista avranno meno problemi quelle che raccolgono soprattutto attraverso i depositi dei clienti e di più quelle che invece si finanziano maggiormente sul mercato.

Oltre alla prima difficile strada dell’aumento dei ricavi ce n’è sempre un’altra, quella della riduzione dei costi.

Qui la rivoluzione che si richiederebbe è più radicale. Il modello bancario italiano è assai complesso e richiede numeri di personale molto elevati. Le banche spagnole, che pure hanno per altra via i loro problemi, hanno adottato un modello molto più semplice (non fanno per esempio risparmio gestito) che consente loro di andare avanti con assai meno personale. Se si mettono a confronto il rapporto dipendenti bancari per numero di abitanti del paese si vede che il numero che esce per l’Italia (0,53) è più che doppio di quello che esce per la Spagna (0,25), il che vuol dire che adottando il più snello modello spagnolo in Italia ci sarebbero circa 100 mila bancari (su 328 mila) di troppo.

Possiamo immaginare la difficoltà di una ristrutturazione del genere e il suo impatto sociale. C’è una terza strada, che è quella tipica delle banche anglosassoni, ovvero aumentare la quota del bilancio che non deriva dal credito ma dalle altre attività. Le banche inglesi fanno il 50 per cento e talvolta di più con la finanza, l’investment banking e altro, con ovviamente i rischi connessi. In realtà questa strada nessuno la prende neanche in considerazione perché è un mestiere che non è nelle corde degli istituti italiani, non è ben vista dalle autorità ed è ad alto rischio. Fatto sta che, tra la difficoltà di percorrere la prima e la seconda strada e l’esclusione della terza, le banche stanno ferme, hanno messo le vele al vento e aspettano. Cosa? La salvezza ha due nomi: inflazione e spread. Un aumento dell’inflazione e quindi dei tassi di interesse permetterebbe loro di aumentare la forbice tra raccolta e impieghi e di conseguenza i margini. Qualche tensione inflazionistica in effetti c’è ma è difficile fare previsioni su quanto potrà accadere nei prossimi due o tre anni.

Gli spread sono un’altra partita. Sono la differenza che pagano sulla raccolta i prenditori di un certo paese rispetto al benchmark, che è la Germania. Ebbene negli ultimi anni gli spread che pagano gli italiani sono cresciuti a dismisura e questo incide enormemente sui conti: un esempio? Una banca tedesca paga sulle obbligazioni che emette qualcosa come l’Euribor più 100 punti base. Una media banca italiana paga l’Euribor più 200 (o anche più punti base). Accade così che quella banca tedesca, o francese, può venire a fare mutui e prestiti alle aziende in Italia offrendo un tasso pari al costo della raccolta delle banche italiane e riuscendo con quel tasso a pagare i costi e realizzare un margine adeguato.

E’ questo il motivo che ha spinto l’Abi a sollecitare un incontro con il governatore Draghi. Finché gli spread non torneranno a livelli ‘normali’ per molte banche italiane la possibilità di fare nuovo business e di guadagnarci sarà ridotta all’osso mentre se gli spread scenderanno, magari dopo un accordo europeo in linea con quello proposto da Angela Merkel, si potrà tornare a respirare. Ma la crescita dell’inflazione e la riduzione degli spread sono ipotesi. Potrebbero passare anche due anni senza significative evoluzioni e due anni di stallo le banche italiane non se li possono permettere. Il momento di darsi una strategia chiara per affrontare questa difficile fase della storia e creare le premesse per una ripresa della crescita non può più essere rinviato.


Autore: Marco Panara
Fonte: La Repubblica.it

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