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Prevenire è governare: la visione del consulente aziendale in tempi di crisi

Intervista a Gianfranco Barbieri, Fondatore dello Studio Barbieri & Associati Dottori Commercialisti e Referente per l’area Consulenza aziendale e Contenzioso

 

Qual è, secondo lei, il ruolo del consulente aziendale oggi, in un contesto economico così complesso?
Il consulente aziendale oggi ha il compito di affrontare problemi complessi in maniera mai ripetitiva, anche quando le situazioni possono sembrare le stesse. Non può limitarsi a ripetere schemi già visti, ma deve adattare l’approccio a ogni singolo caso, perché ogni azienda è un mondo a sé. La sua funzione è anche quella di favorire la consapevolezza: aiutare l’imprenditore a vedere con lucidità i problemi, anche quando le soluzioni non sono immediate.
Il suo ruolo richiede visione, responsabilità e adattabilità, unite a costante aggiornamento, in un contesto dove l’economia cambia in fretta e i margini di errore sono sempre più stretti. Ci sono crisi che non sono colpa di nessuno, crisi che sono colpa di qualcuno e crisi che sono volute da qualcuno. In questo scenario, il creditore viene spesso dipinto come un avvoltoio, piuttosto che come una persona che ha semplicemente diritto di riscuotere quanto gli è dovuto per un servizio o una fornitura già prestata.

Adeguati assetti: cosa significa davvero per un’impresa “avere assetti adeguati” e perché oggi sono così centrali nella prevenzione delle crisi?
La normativa stabilisce che l’azienda deve preoccuparsi di avere degli assetti adeguati al tipo di business che vuole gestire. Avere assetti adeguati significa dotarsi di una struttura organizzativa, amministrativa e contabile coerente, proporzionata ed equilibrata. Serve un modello organizzativo chiaro, con organigramma, mansionari, contratti ben formalizzati e una contabilità tempestiva, che consenta di cogliere segnali di difficoltà in tempo per correggere la rotta.
La norma non definisce in modo preciso cosa sia “adeguato”, lasciando all’imprenditore la libertà, e la responsabilità, di interpretarlo. Tuttavia, in caso di crisi, la mancanza di assetti adeguati può comportare responsabilità per gli amministratori. Per questo sono fondamentali nella prevenzione: aiutano a governare l’impresa in modo consapevole e a intervenire quando si può ancora fare qualcosa.

La norma lascia ampio margine di interpretazione: come può un imprenditore capire se la propria struttura è davvero adeguata o rischia di incorrere in responsabilità?
Va chiarito che non esiste un test definitivo. Un occhio esterno ed esperto può aiutare a vedere criticità e punti deboli, e il mio suggerimento è di guardare sempre con attenzione al quadro generale prima di perdersi nei dettagli.
La piena libertà dell’imprenditore di poter fare qualsiasi attività, anche ad alto rischio, non lo esime dal dovere di agire informato e dal dover documentare la razionalità delle proprie scelte, applicando un modello organizzativo coerente con la dimensione e la complessità dell’attività svolta. Altra questione rilevante da mettere a fuoco è la dimensione temporale: ciò che si poteva ritenere adeguato fino a ieri, potrebbe non esserlo più domani se intervengono cambiamenti significativi al modello di business.
Per esempio, se vendo all’estero, dovrò fare attenzione a possibili tensioni geopolitiche o dazi che potrebbero intervenire nel corso del tempo. Avere una visione chiara di quello che faccio e dove lo faccio può aiutarmi a cambiare rotta laddove le condizioni cambino, anche se non dipendono da me.
In caso di crisi, sarà il giudice, supportato da consulenti tecnici, a valutare se quel particolare assetto si poteva ritenere adeguato. Non basta aver speso per fare un modello organizzativo o un sistema 231: conta come il modello viene applicato e aggiornato nel tempo. La difesa dell’imprenditore si gioca sulla capacità di dimostrare di aver fatto tutto il possibile, in modo ragionevole e proporzionato, per mappare i rischi del settore in cui opera e gestirli.

Negli ultimi anni si è parlato molto di composizione negoziata della crisi. Qual è la sua opinione su questo strumento e quali limiti vede nella sua applicazione concreta?
La composizione negoziata non è una procedura, perché l’attivazione del tribunale e il coinvolgimento della totalità dei creditori non sono obbligatori, ed è un percorso che si dovrebbe attivare, in via riservata, non appena l’azienda sta entrando in difficoltà, quindi ben prima di arrivare all’insolvenza. Lo scopo è quello di prevenire la crisi vera e propria e salvaguardare il valore dell’impresa e i posti di lavoro.
L’esperienza di 4 anni mostra diversi limiti. È uno strumento in cui l’imprenditore mantiene il controllo e l’esperto può solo suggerire. Questo riduce l’efficacia dell’intervento e sposta tutto sulla responsabilità dell’imprenditore, che può anche ignorare i consigli ricevuti. Viene spesso usata anche in situazioni in cui l’insolvenza è già conclamata, forzando i confini dello strumento.
Pur essendo pensata per imprese di ogni dimensione, per ora si sta rivelando più utile per i grandi player, mentre tra i piccoli le probabilità di successo sono inferiori. Senza un vero cambio di governance o l’ingresso di soggetti nuovi, difficilmente funziona.

Quando arriva un’impresa in difficoltà, quali sono i segnali che la convincono che può ancora essere salvata e quali invece indicano che è troppo tardi?
Per poter essere salvata, un’impresa deve avere almeno uno o più di questi elementi fondamentali: un mercato, un prodotto valido, una tecnologia, persone competenti e accesso alla finanza. Se mancano tutti, è praticamente impossibile costruire un piano di risanamento credibile.
Viceversa, se c’è almeno un asset solido, come un brevetto, un prodotto forte o un marchio appetibile, allora è possibile che un investitore esterno subentri e dia continuità.
Il problema nasce quando si insiste nel tentare soluzioni prive di prospettive reali, perdendo tempo e aumentando i danni. In quei casi, il rischio è non solo economico, ma anche legale, perché il prolungamento dell’attività oltre la perdita dell’equilibrio aziendale può portare a responsabilità gravi per amministratori e sindaci.

Oggi si parla spesso di sostenibilità e criteri ESG: che ruolo giocano nella gestione delle imprese e nei processi di risanamento?
La sostenibilità, intesa in senso ampio, è importante, ma deve essere compatibile con l’equilibrio economico dell’azienda. Un’impresa in crisi non può permettersi di investire in impianti nuovi o in progetti green se prima non ha recuperato solidità.
Solo un’azienda economica, cioè efficiente e ben gestita, può diventare anche sostenibile.
L’obiettivo primario nei risanamenti resta ridurre i costi, salvare ciò che ha valore e attrarre investitori, non applicare per forza modelli ideali. Quando invece si cerca di sovrapporre troppi obblighi (231, privacy, sicurezza, ESG) a un’impresa già fragile, il rischio è di affossarla del tutto.

Una strategia di risanamento pragmatica dovrebbe cogliere le carenze organizzative comuni ai vari sottosistemi aziendali e fornire attraverso la tecnologia un piano delle azioni di adeguamento proporzionato e armonioso, ovvero, in altre parole, di buon senso.

Per vincere la comprensibile diffidenza dei creditori, un piano di risanamento ben fatto deve dimostrare di non essere un mero esercizio di calcolo. Un modo per riuscirci è evidenziare tra le linee strategiche di azione quello che il management intende fare sul fronte della digitalizzazione dei processi e della sostenibilità.

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