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Sofferenze, ecco i veri conti del sistema bancario italiano

Da un anno il governo si occupa di banche nel modo in cui di solito si restaura un mosaico: pezzo dopo pezzo. Ci si concentra sui singoli tasselli man mano che minacciano di staccarsi. In qualche modo si cerca di disinnescare al meglio le emergenze una per una. Un anno fa fu il momento di quattro piccole banche in dissesto in Italia centrale, in primavera Popolare di Vicenza e Veneto Banca furono salvate coagulando un decine di investitori privati nel fondo Atlante, in estate un piano di Jp Morgan ha quanto meno fatto guadagnare tempo al Monte dei Paschi e proprio ieri Atlante ha annunciato che comprerà crediti in default di Siena per una cifra fino a 1,6 miliardi.

Non è stata una scelta. L’approccio caso per caso – tamponare ciascun incendio quando divampa – è stato subìto da tutti come una necessità dettata dalla carenza di altri mezzi. Se il governo avesse affrontato il problema in modo complessivo, intervenendo con un piano di aiuti pubblici per il sistema, le regole europee avrebbero imposto di colpire gli investitori e i depositi; gli effetti sarebbero stati destabilizzanti.

Questa settimana però, a un anno dall’ingresso della fase acuta della crisi bancaria, la Banca d’Italia è tornata a pubblicare il quadro del credito nel Paese e dei prestiti in default. Quei numeri obbligano a chiedersi se la strategia degli interventi puntuali ormai non abbia raggiunto i suoi limiti. Ad agosto 2016 i crediti verso debitori insolventi pesano per il 10,4% del totale di quelli concessi, e per il 12,2% del reddito italiano di un anno. Nel frattempo lo stock di credito all’economia ha continuato a scendere, giù di 26 miliardi dall’inizio dell’anno. Sembra un forte calo, eppure per contenerlo dev’essere servito impegno da parte delle banche, a giudicare dalle ultime stime del Fondo monetario internazionale: il Global Financial Stability Report di questo mese nota che ogni crollo del 20% del prezzo di Borsa degli istituti provoca in media un calo del 4% dei livelli del credito all’economia, perché le banche si arroccano e si concentrano sui propri problemi interni.

Nell’area euro e ancora di più Italia, sta accadendo. Il crollo dei titoli bancari in Borsa scoraggia i nuovi investitori, tiene lontani i capitali freschi di cui ci sarebbe bisogno, raziona il credito e rallenta la ripresa. Da inizio anno l’indice bancario del Ftse Mib di Milano è in calo del 48,5%, quello dell’Eurostoxx banche del 24,9%. Una caduta di queste dimensioni, per l’Fmi, minaccia di ostacolare i prestiti all’economia per almeno tre anni se non ci saranno rimbalzi.

È su questo sfondo che la situazione del sistema bancario oggi in Italia si confronta con quella di altri Paesi colpiti da sindromi simili nel passato recente. Ad eccezione di poche aziende dai bilanci solidi e più agili – fra le maggiori, Intesa Sanpaolo – alcuni dati vitali nella media dell’industria oggi sono più deteriorati di quanto fossero in altri Paesi alla vigilia di grossi salvataggi pubblici. I crediti in difficoltà in Italia sono il 18% del totale, contro il picco del 9% in Spagna nel 2013. Quelli in default erano all’11% del Pil in Svezia nel 1993, prima di un colossale intervento del governo, mentre in Italia sono già saliti oltre il 12%. E la Finlandia aveva il 9,3% di crediti in default nel 1992, prima di un salvataggio pari al 10% del Pil, mentre l’Italia è già sopra quei livelli senza che nulla del genere accada.

L’elenco potrebbe continuare, ma non cambia la sostanza: senza un intervento di sistema, il credito in Italia rimarrà paralizzato a lungo anche se non esplodessero nuovi dissesti. I vincoli europei restano difficili da navigare come prima; ma passato il referendum del 4 dicembre, chiunque vinca, tornare a chiedersi come affrontarli sarà inevitabile.


Autore: Federico Fubini
Fonte:

Il Corriere della Sera

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